Da Neuromante (1984) di William Gibson in avanti c’è una componente fondamentale in quel vasto corpo di testi che sta sotto il nome di cyberpunk presenta una caratteristica fondamentale, evidentissima, ma su cui spesso non si riflette fino in fondo: l’elemento “cyber”. Ciò significa che, in una qualche misura, queste storie contengono ibridazioni uomo/macchina, innesti, protesi, organismi modificati col fine di incrementare le loro abilità.
Per certi versi si tratta di un sogno: l’essere umano supera progressivamente i suoi limiti fisici e biologici, ottiene l’accesso a nuove e inedite possibilità. Il tutto in un rinnovato rapporto con la tecnologia, che non è più esterna ma interna, non solo nel senso che sta ‘dentro’ al corpo, ma che viene percepita come ‘naturale’ Su questo punto è molto interessante il parallelismo condotto da Ruggero Eugeni nel suo La condizione postmediale (2015), in cui utilizza il film Avatar (2009) di James Cameron per spiegare queste due visioni della tecnologia. Egli dice infatti che, contrariamente a quel che potrebbe sembrare, il film non presenta uno scontro fra “natura” e “tecnologia” ma fra due forme di tecnologia: quella dei Na’vi (integrata, interna, embodied, intangibile…) e quella degli umani (visibile, esterna, separata dall’organismo…).
Il cyberpunk, o perlomeno buona parte del genere, sta più o meno a metà fra questi due poli. Non c’è ancora una tecnologia pienamente naturalizzata, ma non ci sono più gli esoscheletri e i macchinari esterni. Come accennato, è una visione tecnofuturistica per certi versi positiva, ma – come spesso avviene – le “magnifiche sorti e progressive” dell’evoluzione civile e tecnologica celano un’altra faccia della medaglia. Non serve nemmeno scomodare la religione o, perché no, la morale e l’etica, e mettersi a discutere di “perdita dell’umanità” o cose del genere, perché si può anche accettare una visione rinnovata del corpo e delle possibilità di intervenire su di esso, cambiamento che è già avvenuto in forma radicale rispetto ad alcune correnti del passato.
Ciò che si prospetta – e di cui si fa cenno qui – è un possibile risvolto molto più concreto e pratico, in un certo legato alla logica capitalistico-consumista.
L’aspetto più evidente è che una simile tecnologia non sarebbe “democratica”, né accessibile. Lo si vede in tante storie cyberpunk: chi è povero può magari disporre comunque della sua protesi, del suo impianto, ma si tratta sempre di modelli vecchi, di seconda mano, magari rubati, che richiedono manutenzione. Chi è ricco, invece, non ha simili problemi, e la distanza che egli può porre fra sé e la massa dei poveri non è più ‘solo’ legata al conto in banca e allo status quo, ma anche a un elemento corporeo, fisico.
Ma non è nemmeno questo il punto, l’effettivo nucleo della questione. C’è un altro aspetto, pur strettamente legato al precedente ma al tempo stesso più sottile e più problematico.
Il “cyborg” non è l’essere umano del futuro, ma del passato.
Bisogna spiegare questa frase, che rappresenta solo apparentemente una contraddizione. I singoli esseri umani invecchiano e muoiono, lo fanno secondo ritmi naturali e più o meno lunghi, all’interno di una specie che grosso modo rimane la stessa. Il cyborg invece è condannato a monte all’obsolescenza, in un’ottica molto più vicina a quella degli smartphone e dei computer che degli esseri viventi. Anche il più performante e potente degli impianti, per quei ricchi di cui si parlava sopra, seguirebbe le logiche di un computer: per quanto possa essere ottimale appena acquistato, ben presto diventerà un prodotto obsoleto. E se con cellulari e PC questo è un problema di costi e sprechi, in un cyborg è tanto più un elemento fortemente problematico, perché è lo stesso essere umano a diventare via via superato, necessario di un rinnovamento e un rimpiazzo.
Questo concetto, pur con varie sfumature, è stato formulato in vario modo da differenti pensatori, ma una delle sue espressioni più efficaci è probabilmente quella del filosofo Fabrice Hadjadj, il quale più volte detto, con alcune varianti, che i cyborg e i “superuomini” sono i dinosauri del futuro, condannati all’estinzione dalla stessa rincorsa tecnologica che hanno generato.
Il fatto che il cyborg, come simbolo, possa avere anche una valenza positiva e liberatoria (si pensi al famoso A Cyborg Manifesto di Donna Haraway dell’85, per esempio, in cui il cyborg era visto come ciò che scardina le suddivisioni binarie imposte dalla società) non rimuove questo suo aspetto potenzialmente minaccioso, inquietante e mandatorio: una volta entrati nella logica della ‘corsa all’oro’ degli innesti biomeccanici è impossibile uscirne fuori.
Volendo fare un parallelismo videoludico, il mondo che segue la logica del cyborg è simile a uno di quei videogiochi pay-to-win in cui bisogna continuamente spendere per mantenere la propria posizione. Questi videogiochi, soprattutto quando portano all’estremo il modello in cui sono inseriti, rilasciano continuamente aggiornamenti con nuovi eroi, armi, poteri o quant’altro possa esser pertinente con quel mondo di gioco. Il nuovo eroe (o arma, o altro) sarà molto probabilmente piuttosto forte, un pochino in più degli altri, e rappresenterà una preda ghiotta per chiunque voglia mantenersi al passo, senza esser costretto a soccombere contro gli altri. Ma all’update successivo ecco che giungerà un altro eroe ancora, e poi ancora, e ancora.
Per immaginare quanto un simile fenomeno possa rivelarsi probabile, del resto, è sufficiente guardarsi intorno. Come ricordava Norbert Wiener nel suo God & Golem, Inc (1964), in italiano tradotto come Dio & Golem S.P.A., già siamo pieni di protesi meccaniche che sostituiscono facoltà perdute o consentono di svilupparne di nuove: cita i motori delle navi, gli scandagli, le ali degli aeroplani, i radar… tutte protesi, in senso lato. Ma pur sempre protesi esterne, la cui obsolescenza può intaccare portafogli e consuetudini, lasciando però l’essere umano fuori dal giro. Entrando nella logica cyborg, anche questo discrimine verrebbe meno e i soggetti si troverebbero calati, corporalmente e ideologicamente, in quest’ottica.
Si tratta, chiaramente, di una prospettiva che rientrerebbe in quelle correnti di tecnofobia sul futuro prossimo, seppur con una sottolineatura su un elemento spesso trascurato. Gli elementi più espliciti di molte storie a tema cyberpunk riguardano infatti altri temi, quando si va ad osservarne gli aspetti più tecnofobici: le logiche di controllo, l’incomprensibilità, l’isolamento sociale, l’inquinamento e molto altro ancora, lasciando in secondo piano un tema tanto banale – se si vuole – quanto fondante. Le nuove e potenzialmente inquietanti disparità sociali dei “superuomini” del futuro, condannati a una perpetua corsa all’aggiornamento per non trasformarsi in “dinosauri”.
Questo articolo fa parte della nostra Cover Story di Cyberpunk 2077, il gioco di ruolo di CD Projekt Red in arrivo il prossimo anno. Per ulteriori approfondimenti, non perdete il nostro hub dedicato a Cyberpunk 2077!