The Art Inside Videogames

The Art Inside Videogames #10 – La localizzazione della cultura e dell’arte nei videogiochi (parte 2)

Alcuni esempi di come il medium videoludico si avvale dell'arte.

L’arte nei videogiochi

Attraverso il videogioco tornano a vivere forme estetiche del passato, come si è visto in alcuni giochi e allo stesso tempo, a volte c’è un ossessivo tendere alla figurazione più realistica, alla mimesis totale della realtà. In questo paragrafo vedremo come in alcuni videogiochi, oltre a inserire frammenti reali, vi sono anche frammenti extra-reali, cioè non presi dalla realtà del mondo ma dai mondi artistici come il sumi-e, l’Art Noveau, il vedutismo e così via. Infatti, di seguito, parlerò di alcuni videogiochi che prelevano copiosamente ispirazioni dall’arte che più amano, rendendo le loro produzioni di gioco comunque molto originali perché danno un proseguo a forme interrotte nel passato, ma riprese con l’innovazione interattiva.

Partiamo con un puzzle game che consente di visualizzare caratteristiche moderniste ed è Echochrome (2008) per PlayStation 3, ispirato alle opere artistiche del noto pittore del novecento “M.C. Escher” e più specificamente le sue opere in cui realizza mondi alternativi, caratterizzati da deformazioni spaziali, paradossi geometrici. Echocrome si presenta quindi come un universo in cui le dinamiche del movimento vengono regolate dall’illusione ottica e gli unici limiti sono dati dalla capacità d’immaginare ciò che circonda il giocatore e riflettere è l’unica soluzione. Nel videogioco il personaggio è un manichino nel quale possiamo leggere un riferimento alla pittura, e nel momento i cui al giocatore viene chiesto di cambiare la prospettiva in modo che quando la vista cambi anche la struttura dello spazio è cambiata, permettendo al manichino di continuare il percorso.

Lo scopo di ogni livello è quello di roteare l’ambiente di gioco per permettere al protagonista, un manichino denominato Viandante nel quale possiamo leggere un riferimento alla pittura, che cammina su una struttura apparentemente impossibile creando una distorsione geometrica, il giocatore deve condurlo a determinati punti dello schema in cui sono posizionati gli Echo, manichini fatti ad immagine e somiglianza del nostro personaggio che si distinguono nell’aspetto solo per la loro particolare colorazione nera. Il principale strumento a nostra disposizione per raggiungere l’obiettivo di gioco è la rotazione della telecamera, essa ci permetterà di nascondere alcuni ostacoli visivi come salti, buchi neri ed altro ancora e l’illusione ottica è l’unica chiave di volta per portare a completamento i livelli.

Echochrome

Oltre alla rotazione della prospettiva poi potremo ricorrere all’utilizzo della funzione “Pensa”, che fermerà il continuo cammino del Viadante permettendoci di ragionare sulla creazione di un percorso che ci direzioni verso la posizione degli “Echo”, e l’interessante funzione “Allinea”, che unirà le strutture caratteristiche dell’ambiente dando vita ad una scorciatoia che faciliterà notevolmente lo svolgimento della nostra missione. Il segreto per diventare un “Echochromista” e quindi di capovolgere le dinamiche che governano il mondo reale mettendo le abilità mentali al servizio di un universo ribelle, regolato solamente dall’incredibile forza subliminale della prospettiva.

Nella modalità “Libera”, la CPU procederà ad una random selection degli stage, suddivisi in sette categorie di difficoltà, in base alla velocità del player nel terminare gli schemi introduttivi che fungono da tutorial mentre nella modalità “Atelier” si può scorrere l’intera gallery composta dai cinquantacinque livelli di gioco per battere il nostro record personale ed, infine, nella modalità “Tela” avremo la possibilità di dare sfogo al nostro estro creativo per disegnare liberamente gli stage che successivamente potremo condividere con gli “Echochromisti” di tutto il mondo.

Dal punto di vista tecnico, la realizzazione grafica di Echochrome risulta pulita, caratterizzata da uno stile minimalista dei livelli, mentre il comparto sonoro è congeniale e rilassante, anche se la linearità di queste melodie potrebbe rivelarsi ripetitiva già dopo poche ore di gioco. Però tra il videogioco è le opere di Escher è bene far notare una fondamentale differenza che non può essere messa in secondo piano; essendo un puzzle game, a prima vista lo spazio architettonico del gioco sembra impossibile ma lo scopo è quello appunto di capire e risolvere il puzzle e ciò comporta una differenza con le opere di Escher, in quanto non sono risolvibili, ma sfidano la percezione del fruitore ponendo il problema dell’interpretazione.

The Bridge

Parlando di Echochrome è necessario nominare altri titoli di gioco che hanno seguito questa direzione. The Bridge (2013) è un puzzle-platform in cui il protagonista, un uomo di mezza età, dorme sotto un albero e al suo risveglio, provocato da una newtoniana mela in testa ed è un collegamento tra Escher e la matematica, condurrà il giocatore, familiarizzando con i controlli, verso la sua abitazione e si avrà accesso ai quattro capitoli del gioco ciascuno costituito da sei livelli. La storia ovviamente è ridotta ai minimi termini poiché non è questa a condurre avanti il gioco ma l’avvicendarsi di nuovi enigmi e puzzle a guidare il giocatore nella progressione dei livelli. In ognuno l’obbiettivo sarà guidare il personaggio verso l’uscita, superando architetture impossibili alla Escher, raccogliendo chiavi ed evitando le palle da demolizione che potranno piombare addosso al nostro protagonista.

La capacità di ruotare le ambientazioni stesse sarà fondamentale nella risoluzione dei puzzle, tutti basati sulla forza gravitazionale e sul concetto di dimensioni parallele. In The Bridge le prospettive ingannano, elementi e barriere architettoniche si trasformano al ruotare dello scenario in inaspettati passaggi, impervie salite divengono agili discese e così via. The Bridge è un gioco molto semplice e allo stesso tempo molto complicato. I puzzle che propone al giocatore sono tutt’altro che immediati, costringendolo a spremersi le meningi per scoprire il giusto modo di procedere verso l’uscita. Allo stesso tempo, il ritmo lento e ponderato e la possibilità in qualsiasi momento di riavvolgere il tempo, annullando eventuali errori, rendono l’esperienza nel complesso piuttosto rilassante e piacevole.

Non vi sono nemici se non le già citate palle da demolizione, e anche queste si muoveranno solo in base alla manipolazione del livello da parte del giocatore. Al completamento dei primi 24 livelli si sbloccherà una modalità speculare, con versioni più impegnative delle stanze già superate e un finale leggermente diverso. La presentazione di The Bridge è molto particolare, il gioco è interamente realizzato in bianco e nero, la grafica è in stile 2D, con un look “disegnato a mano”. Particolarmente riuscite sono le ambientazioni caratterizzate da architetture impossibili degne delle migliori opere di Escher, mentre le musiche delicate e sobrie contribuiscono a creare un’eccellente atmosfera di mistero. La storia è ridotta veramente ai minimi termini e non è questa ma l’avvicendarsi di nuovi enigmi e puzzle a guidare il giocatore nella progressione dei livelli. The Bridge è un gioco che viaggia sul non detto, stuzzicando e mai soddisfacendo la curiosità del giocatore.

Fez

Per parlare di Monument Valley è necessario fare prima una premessa su un altro videogioco, perché nato dall’incontro del già citato Echocrome e FEZ (2012). Quest’ultimo è uscito su quasi tutte le console ed è un coloratissimo puzzle-platform in cui il giocatore è chiamato a vestire i panni di Gomez, un mostriciattolo bianco che vive in un mondo dove tutti sono convinti della non esistenza di una terza dimensione. Gomez dopo aver ricevuto in regalo dall’anziano del villaggio il fez (tipico cappello marocchino da cui prende ispirazione il titolo) scoprirà che la realtà bidimensionale nella quale ha vissuto sino ad ora non è altro che una menzogna e che, per salvare il proprio paese da una terribile minaccia, dovrà riuscire a recuperare una serie di cubi dotati di un potere misterioso. Nonostante la trama sia solo un pretesto per sfruttare il gameplay unico di FEZ, i dialoghi risultano ben scritti e probabilmente strapperanno un sorriso grazie ad un umorismo no sense caratteristico di altre produzioni quali, ad esempio, Adventure Time.

Lo stile grafico di FEZ ricalca alcuni titoli a 8-16 bit grazie ad una grafica composta interamente da pixel colorati. Questo elemento, affiancato alla risoluzione in FHD garantita dalla versione PlayStation 4, garantisce una nitidezza e dei colori brillanti. La colonna sonora, ad opera del compositore californiano Disasterpeace riesce a conquistare il giocatore grazie a melodie ipnotiche in stile retrò. All’interno del gioco c’è la possibilità di ruotare l’asse orizzontale per quattro volte, in modo da dare ogni volta una versione bidimensionale di un mondo tridimensionale, cioè come se si percorresse un lato di un cubo e, improvvisamente, ruotando il cubo stesso ci si trova su un’altra faccia adiacente.

Questo perché volendo offrire una visuale volutamente retrò, tutto l’universo di gioco è stato modellato unicamente in tre dimensioni, per riuscire a esprimere al meglio la sensazione di profondità nel passaggio da una prospettiva all’altra. Il gameplay di FEZ è quindi una perfetta fusione tra un platform, dato che nella “faccia del cubo” ci si muove saltando di piattaforma in piattaforma, e un puzzle game, visto che molti degli enigmi ambientali potranno essere risolti grazie all’utilizzo del cambio di dimensione e di differenti giochi di prospettiva.

Monument Valley

Eccoci giungere a Monument Valley (2013), il piccolo gioiello di Ustwo Games che dopo aver venduto 500.000 copie in un mese e aver raggiunto un milione nei due mesi successivi, si aggiudicò ben due premi BAFTA Video Game Awards come “Miglior videogioco britannico” e “Miglior videogioco mobile” nel suo anno di uscita. Parliamo di un puzzle game bidimensionale in cui l’architettura svolge il ruolo di protagonista ispirandosi a uno stile del design 3D minimalista con illusioni ottiche, palazzi e templi di tutto il mondo stilizzati e creati a mano per poi essere animati, il tutto curato in modo dettagliato rappresentando un mondo unico da rappresentare. Il gioco vanta un level design in grado di stupire a ogni istante, grazie agli splendidi sviluppi di ogni livello e a una tavolozza di colori che gioca su tonalità e sfumature.

La trama è appena accennata ma il giocatore dovrà accompagnare una misteriosa principessa in un viaggio nella “Valle dei Monumenti” alla ricerca di “redenzione”, guidandola attraverso puzzle di illusioni ottiche e “oggetti impossibili” che andranno a comporre i vari enigmi del titolo. Giocare uno dei dieci livelli dall’inizio alla fine sarà come esplorare un libro pagina dopo pagina, con sviluppi sempre maggiori e un aspetto artistico così carico di innocenza da sfiorare la poesia. Da vere e proprie scatole che si schiudono creando diverse ambientazioni, ogni livello di Monument Valley è una “piccola opera d’arte” che merita di essere ammirata, prima ancora che giocata, usando le dita per modellare alcuni elementi dell’ambiente di gioco come manovrare passerelle rotanti o pezzi da spostare che permetteranno alla principessa di giungere alla fine.

In più di un’occasione, i livelli di Monument Valley richiamano le incisioni di M.C. Escher con le sue costruzioni geometriche mentre la principessa cammina a testa in giù, percorre scale a rovescio e linee prospettiche non euclidee, fino a passeggiare su una esplicita citazione del Triangolo di Penrose. I puzzle incontrati dalla principessa saranno quasi tutti incentrati principalmente sulla prospettiva, in un mondo in cui fidarsi dei propri occhi è sicuramente un errore e dove le normali leggi della fisica non sembrano sapersi imporre.

ll gameplay di Monument Valley non è nulla di originale in senso stretto, rifacendosi a giochi già visti come FEZ e Echochrome, citati in apertura, che hanno già tentato di far giocare gli utenti con la prospettiva, e il titolo di Ustwo non fa altro che riprendere delle meccaniche molto simili per riprodurle in un contesto diverso. In Monument Valley, tra l’altro, troviamo una funzione particolare che testimonia proprio questa vocazione: nell’interfaccia è incorporato un comando per scattare uno screenshot, modificare l’inquadratura, ingrandirla, per poi pubblicare lo scatto su Twitter, Facebook o Instagram, con tanto di hashtag predefinito incorporato (#monumentvalleygame). Un particolare pregevole che ha contribuito a far girare velocemente le immagini anche nei feed in cui di rado appaiono videogiochi.

Ōkami

Tra i videogiochi che si rifanno a varie correnti artistiche c’è Ōkami (2006), gioco action il cui titolo è un gioco di parole tra “grande dio” e “lupo”. Capolavoro indiscusso di Clover Studio, Ōkami i si è scontrato ben due volte contro un mercato poco recettivo nei confronti di un videogioco semplicemente straordinario, ma forse dal gusto eccessivamente atipico per fare breccia nei cuori del grande pubblico. Ōkami HD approdò su PlayStation 3 dimostrandosi un titolo poco invecchiato e con tanto da offrire sia ai neofiti, che avranno l’ennesima occasione per scoprire questo capolavoro, sia ai nostalgici che non hanno mai dimenticato la loro prima volta nei panni della Dea del Sole.

Ambientato in un non specificato periodo del Medioevo giapponese, Ōkami unisce miti e leggende per raccontare la storia di una terra che si salvò dall’oscurità grazie alla dea del sole shintoista Amaterasu, scesa nel mondo degli umani sotto forma di lupo bianco. Il gioco presenta una grafica cel-shading ispirata allo stile pittorico sumi-e e si sviluppa attorno al “pennello celestiale”, una particolare tecnica divina che permette di compiere miracoli semplicemente disegnando. Lo stile pittorico del sumi-e si è sviluppato molti secoli fa, ed è stato attraverso questo stile che si è caratterizato Ōkami, prendendo spunto da pittori come il cinese Xia Gui e il giapponese Sesshu Toyo, famosi nella loro arte. Per certi aspetti. Il gioco vive di questa ispirazione, il suo dinamismo visivo senza precedenti per il suo tempo, si rimane estasiati dai fiori che spuntano sulla scia di Amaterasu mentre attraversa i campi.

Ogni elemento è fortemente legato alla cultura e alla tradizione giapponese in modo quasi viscerale. Questo atteggiamento è chiaro fin da quando il gioco viene avviato, sia dal punto di vista grafico-visivo che per quanto concerne la trama, che cala il giocatore in un mondo dominato dalle leggende e dal folklore nipponico. L’antefatto della storia è ispirato ad uno dei miti shintoisti più classici, la leggenda del serpente di Yamata (in lingua originale Yamata no Orochi). Cento anni prima dell’inizio della storia, l’eroe Nagi ed il lupo bianco Shiranui, incarnazione della dea del sole Amaterasu, combatterono il demone Orochi, enorme serpente con otto teste, per la salvezza del villaggio di Kamiki. Alla fine della terribile battaglia il demone venne sigillato all’interno della Grotta della Luna, ma il prezzo fu la morte del lupo bianco, che venne riportato al villaggio dove verrà ricordato come un eroe.

Ōkami

Quando però Orochi riesce a liberarsi dalla prigionia impostagli dai due eroi, Amaterasu viene riportata nel mondo dei vivi (sempre nella sua forma di lupo bianco) da Sakuya, spirito protettore del villaggio di Kamiki. Il compito della dea sarà quello di sconfiggere nuovamente il demone e di viaggiare per il Giappone alla ricerca dei suoi poteri, le tredici tecniche del pennello celestiale, che si sono disperse al momento della sua morte cento anni prima. Le ambientazioni sono iconiche e ispirate al Giappone della mitologia, poiché lo stile con cui sono presentate le città e il vestiario dei personaggi evocano un non meglio precisato periodo del Giappone feudale, una delle epoche più adatte e che meglio si presta allo stile “da tradizionalista” del titolo. È un gioco d’avventura che condivide moltissimi elementi con i più moderni The Legend Of Zelda, ritrovandovi il tema del viaggio, della purificazione di un mondo morente, dell’eroismo, dell’amicizia e del dovere di un essere supremo chiamato a sconfiggere un male quanto mai tangibile e soffocante.

Anche la giocabilità si ispira ad un “classico” del Sol Levante come le già citate avventure di Link: infatti il giocatore, nei panni di Amaterasu, viaggia per aree e ambienti all’interno di un mondo esteso e ben caratterizzato che spaziano dalle pianure limitrofe al villaggio di Kamiki, fino alle fredde e ghiacciate terre a nord del Giappone, passando per zone cittadine e aree costiere. Portando a termine gli incarichi principali e anche delle missioni secondarie di importanza più o meno relativa, permettono di sbloccare abilità secondarie, di raccogliere oggetti e “preghiere”, sotto forma di punti che permettono di potenziare le abilità di Amaterasu o accumulare inchiostro per il pennello celestiale. Interessante e di fondamentale importanza è questo oggetto, che grazie alle sue diverse tecniche (acquisite durante il corso dell’avventura) permette la risoluzione degli enigmi e l’esplorazione degli ambienti.

Queste abilità si attivano premendo un tasto che fa comparire una sorta di tela sull’inquadratura della telecamera, su cui il giocatore andrà a disegnare i simboli che attivano le varie tecniche celestiali usando lo stick analogico destro del controller o il Playstation Move, perché Ōkami come detto precedentemente è disponibile per tre piattaforme tra cui PlayStastion 2, PlayStation 3 e Nintendo Wii. È con quest’ultime due, che dotate di controller sensibile al movimento consentono al giocatore di interagire con lo scenario, trasformando lo schermo in una tela, come un pittore interagisce con il suo quadro, mettendo in scena il cambiamento del paesaggio attraverso la loro pittura o “dipingendo” di volta in volta quanto serve per poter proseguire con il livello (ad esempio disegnando delle bombe in prossimità di spaccature lungo le pareti ricostruendo ponti crollati, o ancora agendo sul ciclo giorno/notte di questo mondo disegnando in cielo il sole o la luna).

Ōkami

Se nelle prime fasi di gioco le tecniche del pennello celestiale sono orientate all’espandere le possibilità di esplorazione, a mano a mano che la storia prosegue le nuove tecniche rimangono sì utili e utilizzabili, ma offrono soluzione interessanti anche sotto l’aspetto del combat system insieme alle tecniche di pittura che hanno il grande pregio di offrire tante alternative alla fase di combattimento, come la possibilità di disegnare bombe che esplodono all’esaurirsi della miccia o di controllare elementi naturali o atmosferici evocando piogge, folate di vento o fiammate. Come già detto, ogni aspetto di Ōkami fa di tutto per evocare la magia e il fascino del Giappone feudale e della mitologia nipponica includendo il comparto audio oltre a quello visivo, che come abbiamo detto precedentemente lo stile grafico è tratto dallo stile pittorico sumi-e.

C’è da tenere in considerazione una differenza tra il primo capitolo del 2006 e quelli successivi; nel primo, la caratteristica peculiare era la resa della grana del foglio di riso che caratterizzava il vecchio Ōkami, che poi è la vera carta che viene utilizzata nell’arte del sumi-e, ma con il remake, questa caratteristica scomparve, scendendo a un compresso, per avere una migliore resa grafica fu necessario rinunciare a qualcosa e quindi si optò per l’eliminazione dell’effetto “carta di riso”. La scelta della colonna sonora, presenta tracce ispirate dalla tradizione nipponica, non facendo altro che accentuare la particolarità di questa scelta di design e fornendo una solida spalla per quanto concerne la componente emozionale delle vicende che accadono ad Amaterasu. Nasce così una storia nuova, capace di farsi amare così com’è, e allo stesso tempo di essere ancora lo specchio di un retaggio culturale che resta ben visibile tra le sue righe e che non manca di far sentire la sua voce.

Transistor

Con Transistor (2014) si cambia scenario, parliamo infatti di un action-GDR sviluppato e pubblicato da Supergiant Game su varie piattaforme. Quando Red canta, Cloudbank, futuristica e distopica città, si ferma, dentro le vibrazioni delle sue note la gente si perde, viaggia e vede la realtà in un modo nuovo. Per questo Red è la più richiesta: Cloudbank non è certo il tipo di città nella quale scarseggiano personalità eccentriche e artisti di rilievo, ma davanti a lei tutti spariscono inesorabilmente. Davanti alla ragazza esiste solo il silenzio di chi ascolta la sua voce e l’adorazione che ne deriva. Quella voce è uno di quei doni che può rendere una persona immortale ma anche farla cadere nel più profondo degli abissi, ed è proprio nel momento più drammatico di Red che la storia di Transistor ha inizio. Un’organizzazione conosciuta come ‘gli Orchestrali’ vuole infatti impadronirsi della sua voce celestiale ma, quando il loro piano si scontra con un misterioso personaggio che sacrifica la propria vita per proteggere quella della protagonista, non sono solo le loro strategie a cambiare, ma il destino della metropoli stessa.

Appena il giocatore incontra Red, lei è priva di voce accanto a un cadavere che è trafitto da un peculiare spadone parlante chiamato Transistor capace di assimilarne le conoscenze delle persone. Quest’ultimo la mette guardia sui pericoli ai cui può andare incontro e le chiede di essere estratto dal corpo, in modo da poterla accompagnare nella sua avventura per scoprire cosa sta accadendo in città. Sarà proprio questa voce nella spada ad accompagnare il giocatore facendo le veci del narratore durante l’esperienza, funzionando sia da compagno che da tramite attraverso il quale si svilupperà la trama. Offrendo un’esperienza sostanzialmente lineare i programmatori hanno cercato di mascherare questo piccolo difetto concentrandosi nell’aspetto unico della città, fornendole una vasta e colorata serie di ambientazioni tale che è impossibile trovare due vicoli che diano anche solo l’idea di essere uguali.

Transistor

Per incentivare l’esplorazione sono state inserite un discreto numero di interazioni, a volte nascoste, che portano regolarmente a degli scontri extra. Un modo per premiare il giocatore con dell’esperienza aggiuntiva. Il combat system resta frenetico nonostante la pianificazione degli attacchi, invitando il giocatore a usare saggiamente il tempo, i turni di attacco, le coperture e le abilità per darci alla fuga. Le vette artistiche raggiunte in Transistor sono semplicemente straordinarie, per comprendere appieno la potenza visivo-espressiva è possibile pensare ad un’incantevole fusione tra le metropoli futuristiche della fantascienza e lo stile Art Noveau degli inizi del ‘900 visibile dalle architetture ai cartelli pubblicitari in cui è rappresentata Red, che ricorda le raffigurazioni femminili dell’artista Mucha, il tutto immerso in un’esplosione di luci e neon d’effetto.

Molto convincenti anche le animazioni (con una fluidità sempre costante anche durante i combattimenti più concitati) e la ricchezza di dettagli su schermo, come la pregevolissima scia cibernetica mista a scintille causata dal trascinamento del Transistor lungo gli scenari o la miriade di effetti di luce che accompagneranno quasi ogni azione di gioco. Anche la colonna sonora è estremamente curata con brani in gradi di spaziare dall’electro rock alla drum ’n’ bass che cala perfettamente il giocatore nei vari ambienti e situazioni in cui ci si ritrova durante il viaggio attraverso la città.

Dishonored 2

L’ultimo gioco preso in esame è Dishonored (2012) che segue il filone narrativo steampunk, che si caratterizza per un’ambientazione storica, spesso ottocentesca, in cui vengono anacronisticamente inserite tecnologie più moderne, alimentate a vapore (inglese è appunto steam). Anche se in questo caso specifico il carburante in questione è l’olio di balena, elemento fondamentale che serve a potenziare qualsiasi apparecchiatura presente nel gioco, dagli ascensori ai muri di luce. La trama è stata definita piuttosto “standard” se presa a sé stante. Il giocatore veste i panni di Corvo Attano, guardia del corpo personale dell’Imperatrice, accusato ingiustamente dell’assassinio della stessa e del rapimento di Emily, l’erede al trono. Imprigionato e condannato a morte dagli stessi complottisti, il protagonista verrà aiutato a evadere dai Lealisti, un gruppo dissidente e fedele alla giovane neo-sovrana.

Sotto la guida dell’Ammiraglio Havelock, leader dei Lealisti, Corvo stabilirà la sua base operativa all’Hound Pits Pub, locale abbandonato situato ai margini della città di Dunwall. Il suo obiettivo sarà molto semplice: eliminare, uno dopo l’altro, tutti i responsabili del regicidio e liberare Emily e insediarla sul trono. Una spirale di vendetta e giustizia che procederà in maniera piuttosto lineare sin quasi al termine dell’avventura, quando il più classico dei colpi di scena sopraggiungerà inaspettato. Dishonored si svolge in una complessa ambientazione composta dall’ Isola di Gristol dell’Impero delle Isole e la sua capitale Dunwall, città prosperosa almeno quanto decadente. Da una parte le enormi mura del palazzo imperiale si stagliano sulle scogliere come monumento alla sua grandezza economica, dovuta soprattutto all’attività portuale e alla caccia della balena.

Dall’altra però, dai bassifondi fino ai curati giardinetti dei potenti, si espande il nero marchio della peste, una piaga ancora senza rimedio. La situazione è letteralmente allo sbando: i potenti e i facoltosi se ne stanno tranquilli dietro le spesse mura delle loro ville e le milizie erigono barriere elettrificate tra un quartiere e l’altro, gettando i cadaveri dei “piangenti” (gli appestati in stadio terminale) nelle acque dei canali di scolo. È questo l’affresco di una società giunta all’apice dello sviluppo e poi crollata, specchio videoludico e metafora iperbolica dell’Occidente, dove ricchezza e potere sono distribuiti a pochi, lasciando marcire tutti gli altri. Questa storia, che viene raccontata solo parallelamente alla trama principale, viene alla luce grazie ai numerosi libri e documenti che possiamo trovare sparsi per i vari ambienti di gioco. Il giocatore si troverà ad avere a che fare con la povertà del popolo, grazie nostre incursioni che dovrà effettuare nei bassifondi della città, dove la gente vive di stenti in mezzo alla piaga dei topi e della peste che essi portano: una malattia che sta lentamente divorando e indebolendo tutta la città.

Dishonored 2

Al centro di tutto c’è proprio il concetto di (dis)onore citato nel titolo, perché a seconda di come il giocatore deciderà di comportarsi nelle varie situazioni proposte durante il gioco avremo un differente continuum del gameplay, nonché una chiusura del sipario consona alle nostre azioni di assassino. In questo contesto, tecnologia, religione e magia si fondono in un solo genere che usa delle fondamenta storiche (o simil-storiche) per costruire qualcosa di unico e dal sapore nuovo. Occupandoci del gameplay la vera forza di Dishonored è quella di proporsi come un prodotto che lascia una grande libertà interpretativa e decisionale al giocatore, perché gli chiede di procedere di missione in missione all’omicidio di uno dei complottisti: ci sono sacerdoti al sicuro nei loro palazzi, politici corrotti che si crogiolano nelle case di piacere, facoltose primedonne che supportano economicamente il nuovo regime. Uno dopo l’altro, vanno fatti sparire. Ma il modo lo decide soltanto il giocatore.

Questa città colpisce grazie al suo design originale e alla sua malsana atmosfera di degrado, nel quale poi il giocatore si troverà a dover perlustrare e visitare, percorrendo vicoli, entrando nelle abitazioni e saltare dai tetti. Ovviamente l’esplorazione della città comporta delle conseguenze, ovvero il giocatore deve affrontare svariate tipologie di nemici: dalle sfortunate vittime della peste chiamati piangenti ai pericolosi Tallboy, le guardie armate di arco con frecce esplosive e dotate di lunghi trampoli, a cui devono il loro nome. Concedere al giocare una grande libertà di esplorazione e un gran numero di percorsi da seguire per muoversi attraverso la città aumenta la rigiocabilità, poiché stimola a scoprire tutte le varie vie di accesso che cambiano a seconda dei potenziamenti acquisiti nella partita in corso.

Il giocatore può quindi procedere celandosi nell’oscurità, schivando gli sguardi obliqui delle guardie, oppure lasciarsi trascinare dal vortice di una violenza inaudita, eliminando gli ostacoli con rabbia. Le scelte si rifletteranno comunque sul mondo di gioco, se si manterrà un basso profilo, limitando le morti tra le fila nemiche ed agendo nell’ombra, manterremo sotto controllo il livello di paranoia degli esponenti del regime; viceversa, aumentando la conta dei morti, il giocatore attirerà non solo le attenzioni dei complottisti (che rimpingueranno la sorveglianza nelle missioni successive), ma creerà appronteremo un banchetto di cadaveri per i ratti, che diffonderanno la peste nelle zone malfamate della città. Questo equilibrio delicato è fondamentale in Dishonored, dove a ogni azione corrisponderà una reazione. Interessante è stato trovare in rete un articolo che parlasse della conferenza sul gioco tenuta dal direttore creativo Sebastien Mitton, lasciando la possibilità di dare uno sguardo più approfondito agli ingranaggi che muovono parte di questi processi creativi e permettendo di intravedere meglio il lavoro che si cela in questo caso dietro la realizzazione del mondo di Dishonored.

Dishonored 2

Il titolo avrebbe dovuto essere inizialmente ambientato nel Giappone medievale, ma l’idea fu cambiata perché il team non conosceva abbastanza bene la cultura giapponese dell’epoca, preferendo Londra che è più familiare per il pubblico occidentale. Gli sviluppatori spesso visitano luoghi o comunque viaggiano per “toccare con mano” ciò che andranno a riprodurre o che verrà utilizzato come fonte di ispirazione. Ma è interessante notare come molto lavoro preparatorio sia stato effettuato studiando dipinti dell’epoca vari artisti, che sono stati passati al vaglio per assorbire le atmosfere e il feeling ormai introvabili in una città dei giorni nostri. Alcuni degli artisti presi in considerazione dal team Mitton, sono Jean-Eugène Buland, Canaletto e John Atkinson Grimshaw le cui opere sono state studiate nel processo preparatorio alla creazione della città che danno un’idea del tipo di approccio adottato e tantissimi altri.

Mitton non ha comunque fatto eccezione alla regola del viaggio, ma il vero scopo della visita non è stato di raccogliere materiale da utilizzare direttamente nella creazione del gioco. “Non si tratta solo di fare foto su foto”, ha spiegato, “bisogna avvertire l’atmosfera della città, viverla, parlare con le persone del luogo”. L’obiettivo iniziale era infatti quello di catturare quello che l’artista francese chiama il misticismo della città. A differenza di quanto si possa pensare, o almeno in questo caso, tutto il materiale è stato utilizzato come fonte di ispirazione e non come base. Le fotografie scattate a Londra, e successivamente Edimburgo, non sono state ricreate neanche in minima parte. Secondo Mitton bisogna evitare il fotorealismo, perché non considera la verosimiglianza un’arte; in un secondo momento della conferenza, il direttore creativo ha sottolineato nuovamente questo concetto parlando di personaggi e costumi.

Per realizzarli, il team si è infatti ispirato a illustrazioni di libri dedicati ai pirati con lo scopo di creare personaggi leggermente grotteschi. Nell’ideazione di Dunwall, le caratteristiche del periodo temporale sono state volutamente contaminate con elementi moderni come l’elettricità, allo scopo di dare vita a qualcosa di unico e, anche se la definizione sembra strana vista l’epoca scelta per l’ambientazione, di fantascientifico. Così come per gli scenari, molti oggetti particolari sono stati fotografati e utilizzati come spunto ma non ripresi integralmente. Una cosa curiosa è stato lo studio della fisionomia dei personaggi, che attraverso il viaggio, Mitton ha riscontrato delle diversità tra gli europei perché nella sua testa avevano le stesse facce. Questi contrasti non son fondamentali nelle fisionomie ma anche in tutte il materiale prodotto come strumento di trasmissione di informazioni e sensazioni.

Altri fattori catturati durante il viaggio preparatorio era la sensazione di oppressione e di controllo di Londra emanate dalle telecamere di sorveglianza. Anche l’illuminazione svolge un ruolo fondamentale per Mitton, la differenza di luce fa sì che molte cose reagiscono in maniera diversa e hanno anche una prospettiva differente. Seguentemente Mitton ha parlato anche dei disegni preparatori di vari personaggi ritratti in una moltitudine di prospettive, seguiti dai concept art che devono poi passare al vaglio del resto del team, della produzione e di tutto quanto muove il motore che porta alla creazione di un videogioco. È in questa fase che il filtro umano rielabora ciò che ha assimilato, portando alla reinterpretazione di quanto studiato e alla creazione ex-novo degli asset che confluiranno nel gioco, creando il primo assaggio di un mondo unico e dotato di una sua atmosfera inconfondibile.