Days Gone

Days Gone – Nostalgia e viaggio nell’apocalisse

L'avventura di Bend Studio si colloca in una lunga storia di mondi post-apocalittici attraversati dalla nostalgia, emozione poco discussa nel genere ma importantissima.

Nostalgia. Etimologicamente è il dolore per il (mancato) ritorno a casa, oltre che il sentimento degli eroi come Ulisse, trascinati lontano dalla loro patria. È una tristezza che può aver un gusto dolceamaro, o presentarsi con una forza struggente e intensa capace di annientare le facoltà del soggetto. Ma può esser anche una forte spinta propulsiva per rimettersi in marcia, per cercare la via del ritorno.

Questa è una nostalgia spaziale, ma c’è anche quella temporale, per i tempi perduti del passato e dell’infanzia. Tempi che non possono che esser belli, in un ricordo nostalgico, in cui spesso emerge solo ciò che era piacevole. Quanti, ripensando per esempio alle estati di vacanza da bambini, si sentono assalire da un turbinio di emozioni, in cui la dolcezza della memoria si unisce al dispiacere della lontananza?

Chi frequenta abitualmente la produzione giapponese di manga e anime avrà forse trovato qualcosa di simile nella natsukashī, una particolare “nostalgia felice” in cui a vincere è la felicità del ricordo, spesso proprio abbinato alle campagne estive. Da classici del manga, come L’età della convivenza di Kazuo Kamimura, a prodotti più recenti, come Dagashi Kashi di Kotoyama, c’è sempre un paesaggio, un sapore, una melodia o un gioco di chiaroscuri che attiva la memoria nostalgica. Persino ne Le Bizzarre avventure di JoJo di Hirohiko Araki, la versione inglese di una delle canzoni di apertura recita che, nella bizarre summer del 1999 «Every road will lead us to a memory of Great Days».

Che fare, però, quando tutto ciò che poteva esser definito “casa” è stato spazzato via? Quando si è nella completa impossibilità di un ritorno indietro, spaziale o temporale che sia? È il caso delle cosiddette narrazioni post apocalittiche, fra cui Days Gone, immancabilmente nostalgico fin dal titolo. Non più i “Great Days” citati poco fa, da mantenere con affetto nella propria memoria, ma i giorni perduti, andati, dissolti, i tempi che non faranno mai più ritorno. Ricordi dolorosissimi che si squadernano lungo il cammino, e anche qui emerge la distanza con l’opening di JoJo, con le sue strade (reali e metaforiche) difficili ma pre-apocalittiche, in cui l’ardore e il coraggio possono cambiare la storia. In un mondo come quello di Days Gone, invece, la storia è già cambiata, e camminar lungo i sentieri del nuovo mondo porta solo tristezza e impotenza.

Il viaggio è un elemento che vale per certo la pena di sottolineare, considerando soprattutto l’uso (e forse abuso) dell’etichetta di “on the road” per parlare del contesto post-apocalittico di Days Gone. Una definizione che certamente vuole sottolineare questa presenza delle motociclette, dei bikers, di tutto quel che comporta a livello di immaginario, ma in fondo una larghissima parte delle storie post-apocalittiche è on the road, tanto che potrebbe esser quasi utilizzato come discrimine per indicare due tronconi principali del genere.

Days Gone

Storie di persone “in viaggio” da un lato, e dall’altro microcosmi di protagonisti assediati (dal gelo, dagli zombie, dalle radiazioni…) che attendono l’ora della propria morte. Citare La strada (The Road) di Cormac McCarthy è fin troppo facile, visto che già dal titolo il focus è ben chiaro: il lungo e terribile viaggio di un padre e un figlio in un’irriconoscibile America post apocalittica. Ma che dire, per esempio, del romanzo Deus Irae di Philip K. Dick, incentrato sul pellegrinaggio del protagonista alla ricerca del “dio dell’ira” che ha scatenato la terza guerra mondiale? E Finché tutti i mari… (Till A’ the Seas…), racconto di H.P. Lovecraft in cui l’ultimo essere umano del pianeta muore al termine di un faticoso e vano vagabondaggio in cerca di acqua?

Al contrario, in un romanzo come Io sono leggenda (I Am Legend) di Richard Matheson – e nei film a esso ispirati, come quello del 2007 di Francis Lawrence – il protagonista non viaggia. Passa le notti barricato in casa, mentre di giorno si sposta per la città stanando vampiri e recuperando risorse. Oltre a sembrare la base di un videogioco survival (di cui concettualmente può pure esser un antenato), ciò che interessa mostrare è la mobilità priva della componente specifica di “viaggio”. Ci si sposta, anche ripetutamente, ma sempre seguendo gli stessi percorsi. Non che il viaggio debba per forza svilupparsi in un ambiente particolarmente ampio, perché tutto è di volta in volta proporzionato alla storia del momento. Sia i protagonisti de Gli uomini nei muri (Of Men and Monsters) di William Tenn, sia quelli de La casa sulle sabbie mobili (Quicksand House) di Carlton Mellick III, due romanzi ambientati in mondi post-apocalittici, esplorano delle case gigantesche, con modalità del tutto compatibili con i viaggi su scala differente, perché quegli ambienti diventano un effettivo cosmo totalizzante.

Metro 2033

Un po’ più in grande, si può pensare al viaggio di Artyom nella metropolitana di Mosca, nel romanzo Metro 2033 di Dmitrij Gluchovskij, che dopo la guerra nucleare è divenuta l’unico luogo abitabile per i sopravvissuti, i quali hanno ricostruito lì dentro una versione ridotta del mondo precedente. Questa metro post apocalittica, così come le case dei due esempi precedenti, richiedono di esser esplorate, sono piene di territori sconosciuti, di incontri e scontri.

Un elemento che unisce la maggior parte delle storie di questo genere è proprio una qualche forma di nostalgia. Non è detto che il sentimento sia rivolto al mondo pre-apocalittico, perché potrebbe esser ormai troppo lontano del tempo, ma il protagonista avrà pur sempre il pensiero nostalgico di un momento precedente della sua vita, o di un luogo particolare, in cui ha sperimentato una relativa stabilità e felicità. Oppure, caso ulteriore, potrebbe esserci nei protagonisti la nostalgia per qualcosa che non hanno mai vissuto realmente, per un mondo lontano nel tempo che gli è stato tramandato, magari in una forma molto romanzata e rimaneggiata. È quanto sperimentano per esempio i robot protagonisti di Primordia, videogioco di Wormwood Studios in cui l’umanità si è estinta, ma i robot mantengono il ricordo di questo loro “dio creatore”, venerato con vagheggiato e confuso sentimento religioso.

Tornando a Days Gone, la distanza temporale col pre-apocalisse è certamente molto più vicina, il che ha la potenzialità di rendere ancor più struggente il tutto. Un video come quello focalizzato sul matrimonio gioca proprio sulla forza di questo sentimento. Il contrasto fra la gioia passata, colta in un momento emotivamente molto marcato, e l’orrore del presente ha una chiara e immediata presa. Non è un caso che anche videogiochi non particolarmente legati al tema nostalgico siano stati presentati – con successo – giocando su questa chiave emozionale. L’esempio principale è il tutt’ora famosissimo trailer di Gears of War con Mad World cantato da Gary Jules. Uno sguardo di Marcus Fenix a una statua distrutta, unita alla musica selezionata, è sufficiente a rendere la sensazione di un mondo in rovina che rimpiange il suo passato, nonostante il videogioco fosse poi di gran lunga focalizzato su una violenza più ‘caciarona’.

Anche Days Gone peraltro, presenta questa dimensione piuttosto roboante, rocambolesca, fatta di pile di tronchi da far crollare sugli inseguitori, inseguimenti e raffiche di fucilate. Perché, allora, anche in casi come questi risulta interessante sottolineare questa nostalgia, un po’ avulsa dalle meccaniche di gameplay? Forse perché la nostalgia è oggi un sentimento estremamente sentito, non senza una certa paradossalità di fondo. Tutto è raggiungibile, tutto è archiviato e recuperato, tutto è grosso modo a portata di mano, ma proprio in un simile contesto si è portati a sentirsi nostalgici nei confronti di periodi temporali sempre più vicini nel tempo. Non più soltanto la nostalgia per l’infanzia superata da qualche decennio, ma anche per qualcosa che è stato fruito pochi anni prima, e la coda lunga dei reboot/remake/re-di tutto un po’ ha chiaramente agio nel seguire una simile tendenza. Ma è un altro discorso.

C’è, invece, collegato a questo contesto, anche una sorta di sotteso senso della fine. Così come l’amore non avrebbe senso senza la morte (perché è la privazione dell’eternità a render impellente la necessità di viverlo), allo stesso modo ci si lascia solleticare dall’idea della fine, intesa qui anche come fine dell’archiviazione, di tutto quel che abbiamo oggi per immagazzinare ricordi e dati, in bilico fra stabilità ed effimero. E cosa, più di un’apocalisse, mette in discussione tutto ciò? Ecco allora il piacere più o meno esplicitato del raccogliere i cocci, i lacerti residui del passato, attraverso un viaggio. Questa è poi al fondo l’idea che comunicano questi viaggi in lande desolate, in cerca di qualcosa che quei “giorni perduti” si son lasciati dietro.

È lo stesso ossimoro – a modo suo riuscito – di abbinare Fallout 76 a una canzone come Country Roads, che canta con grande forza la nostalgia del ritorno: «I hear her voice, in the morning hour she calls me / The radio reminds me of my home far away / And driving down the road I get a feeling / That I should have been home yesterday, yesterday».

Anche quando è un “ritorno” impossibile, o forse proprio perché reso impossibile dall’apocalisse, vogliamo farci solleticare da questo sentimento nostalgico per riscoprire l’amore verso le cose presenti.

Fallout 76

Questo articolo fa parte della nostra Cover Story di Days Gone. Per maggiori informazioni, date uno sguardo al nostro hub dedicato alla prossima esclusiva PS4!