Considerato ancora oggi un tabù, un tema difficile da trattare, delicato e oltremodo impegnativo da rappresentare in qualunque forma: la malattia mentale. Il panorama cinematografico ormai pullula di opere incentrate sui drammi della psiche, e anche nella letteratura non mancano i frutti di esperienze vissute in prima persona da qualcuno affetto da disordini mentali, siano essi romanzi di fantasia o ispirati a fatti realmente accaduti. Quello che però scarseggia, forse, è il coraggio di trattare questi temi in ambito videoludico; un ambito ancor oggi poco conosciuto ai più.
Fortunatamente però, anche se in quantità minore rispetto ad altri tipi di intrattenimento, possiamo trovare titoli che cercano di venire a capo e in qualche modo spiegare ciò che accade in una mente fratturata o tormentata da voci e allucinazioni che albergano in un mondo creato da zero.
Il videogioco è un potente mezzo di comunicazione che permette al giocatore di immedesimarsi nel personaggio e in tutto ciò che lo circonda, quindi sotto un certo punto di vista è il modo migliore per trattare questi temi, facendo rivivere a chi gioca l’angoscia del protagonista e le sue paure tramite suoni, percezioni, situazioni di pericolo e vicende che vanno oltre la comune immaginazione.
Hellblade: Senua’s Sacrifice, uscito nell’estate 2017 su PC e PS4, rientra nella categoria di avventure dinamiche e hack ‘n’ slash con marcati riferimenti alla mitologia norrena, in cui vestiremo i panni di Senua, guerriera celtica affetta da una grave forma di psicosi, esiliata dal suo villaggio perché ritenuta responsabile di funesti avvenimenti e pestilenze. La mente già fragile della ragazza è ulteriormente penalizzata dalle torture psicologiche indotte dal padre, che fin da piccola la sottopone a dei riti druidici per “liberarla” dalla sua maledizione.
Senua percepisce, vede e sente cose che non esistono; nella sua mente si è costruita un mondo parallelo, fatto di voci che la inducono a scelte che non costituiscono la sua volontà, macabre allucinazioni e canti che la guidano nel suo tortuoso cammino.
Il team ha realizzato anche un interessante documentario di circa 30 minuti (che è preferibile visionare dopo aver finito il gioco, vista la presenza di pesanti spoiler) che – con l’aiuto della selezione di medici e pazienti che hanno supportato il progetto – spiega il decorso della malattia, le sintomatiche principali e sopratutto un concetto fuori dalle righe, ovvero che stigmatizzare la malattia mentale non solo è controproducente per i soggetti affetti (che possono essere anche amici o parenti), ma anche dannoso nei confronti della conoscenza stessa, in quanto approfondire e cercare di capire una situazione diversa dalla nostra può farci aprire gli occhi su cose che credevamo impossibili. Insomma, uno sprono ad aprire la mente e a vedere la vita in maniera diversa.
E se il team Ninja Theory ha trattato in maniera eccellente il tema della psicosi, esistono anche altri progetti altrettanto validi che si possono accostare a questa tipologia di giochi, contenenti spesso sfumature horror.
Layers of Fear è un horror psicologico sviluppato da Bloober Team, disponibile dal 2016 su PC, PS4, Xbox One e, da qualche giorno, anche su Switch. In questa avventura in prima persona, azzeccatissima scelta per farci calare ancor più nel personaggio, entriamo nella parte di un artista maledetto, sull’orlo della follia, rivivendo un passato fatto di traumi e sofferenze. Il tema trattato è la schizofrenia, inizialmente mascherata però e anche in modo intelligente, da una storia noir e macabra, che fa pensare più a eventi soprannaturali che altro. Il tutto si svolge in un’enorme magione in stile vittoriano, dove l’uomo, per giunta claudicante, dovrà fare i conti con la sua condizione di alcolista, nonché di instabilità mentale.
Completamente assorbito dalla sua disperazione, costretto pure da una protesi per via del suo handicap, il protagonista vaga per le stanze del maniero ottocentesco in cerca di risposte, dove tramite vecchie lettere e ritagli di giornale, comincia a rimettere insieme i pezzi della sua vita, giungendo a scoperte terribili. I muri della casa, le porte, i corridoi cambiano assetto continuamente; i dipinti e le ombre dei mobili mutano costantemente e nuovi passaggi si aprono in modo surreale, quasi a voler accentuare il delirio dell’artista. Non sono presenti molti jumpscare, in quanto è molto più riuscita la formula del “vedo/non vedo”, che fa immergere il giocatore in una continua sensazione di soffocamento, oppressione, e rappresenta al meglio i momenti di lucida follia.
La schizofrenia in questo titolo viene rappresentata artisticamente, con giochi di luce e colori che la fanno da padrone in un mondo al limite della follia. I soggetti antropomorfi, a volte mostruosi e grotteschi delineano proprio la totale instabilità mentale del protagonista, rinchiuso giorno e notte nel suo studio a dipingere, in cerca della perfezione della sua opera principale.
L’eccellente stile narrativo fatto di suoni e colori strizza prepotentemente l’occhio alle opere di Edgar Allan Poe che, grazie ai suoi studi di psicologia, riusciva nei suoi romanzi a rendere vivido e reale il disagio dell’essere umano unendovi anche eventi soprannaturali e viaggi onirici.
Veniamo ora al “capostipite” dei disagi mentali, un disturbo estremamente diffuso: la depressione, ancor oggi demonizzata e accostata alla pazzia nel termine più generico che esista. The Town of Light è un videogioco uscito originariamente su PC nel febbraio 2016, e successivamente portato su PS4 e Xbox One l’anno successivo. La trama del gioco si ispira a fatti realmente accaduti proprio in Italia, dal momento che il team che l’ha creato è composto interamente da nostri connazionali. L’ospedale psichiatrico di Volterra, in Toscana, è realmente esistito e fa da teatro a un viaggio introspettivo che fa riflettere su come venivano trattati pazienti mentalmente instabili in passato.
L’ospedale è stato fondato nel 1887 ed è rimasto attivo fino al 1978, anno in cui è entrata in vigore la legge n.180, meglio nota come legge Basaglia, che portò alla chiusura dei manicomi e alla totale modifica delle regolamentazioni del trattamento sanitario obbligatorio, anche conosciuto come TSO. Alle porte della struttura un messaggio in latino: “Sanus Egredieris”, ovvero “uscirai sano“. Un augurio che ha accompagnato negli anni più di cinquemila internati trattati come carcerati in un severissimo regime dove gli infermieri venivano addirittura chiamati “guardie”.
The Town of Light affronta la drammatica storia di Renèe, una ragazza appena quindicenne che viene rinchiusa nel manicomio di Volterra nel 1938. Il giocatore però, si ritrova in un contemporaneo 2016, dove per far luce sulla vicenda bisogna esplorare la struttura ormai ridotta in rovina. L’accuratezza della location è dovuta al gran numero di visite in loco da parte del team di sviluppo, che hanno consentito di riprodurre in maniera fedele l’oggetto della loro idea. Questo titolo non presenta accenni all’horror e neanche vuole esserlo, in quanto i veri mostri qui sono uomini col camice e giornate passate in totale isolamento, quasi a voler annullare la personalità dei pazienti, più che aiutarli in un percorso realmente riabilitativo.
Il bigottismo che ancor oggi alberga nella società è il vero messaggio che il team ha voluto denunciare, raccontando l’incubo di una ragazzina che in quel manicomio ha subito di tutto: ripetute violenze sessuali da personale senza una morale, un’omosessualità che hanno cercato di “curare” con metodi e terapie illegali, aborti spontanei che non hanno fatto altro che aggravare una situazione già difficile. La sorte della ragazza si rivela disperata, dipingendo il ritratto di una realtà nuda e cruda, quella dei manicomi di inizio XX secolo.
I videogiochi riescono ormai a trattare tematiche in grado di far riflettere e sviluppare un senso critico volto a una crescita personale interiore. È anche stato dimostrato da studi in diverse università americane che, se usati nella maniera corretta, i videogiochi possono essere un ottimo rimedio contro i disturbi mentali, depressione inclusa. Anche i genitori più diffidenti verso questo tipo di intrattenimento digitale dovrebbero aprirsi alla tecnologia e non incolparla, come spesso si sente nei TG, per fatti di cronaca nera secondo loro indotti da videogiochi violenti, poiché qualsiasi mezzo può essere pericoloso in soggetti che sono già predisposti a certi tipi di comportamento.
In un’epoca segnata purtroppo da vicende di bullismo e cyberbullismo, l’unica via di uscita è parlare, sfogare le proprie frustrazioni ad amici, compagni di scuola, genitori ed insegnanti. E se proprio i videogiochi fossero uno sprono alla denuncia, perché non approfittarne?
In questo articolo ho trattato tre dei videogiochi che, a mio avviso, hanno trattato in modo più significativo la tematica, ma fortunatamente da qualche anno a questa parte il panorama videoludico offre sempre più opere dedicate al tema. Fateci sapere le vostre opinioni nei commenti!