Layers of Fear

Layers of Fear

Era solo questione di tempo, i cosiddetti walking simulator non potevano rimanere indifferenti all’orrore. Anche Gone Home sembrava inizialmente un gioco horror, ma in quel caso era soltanto una impressione, il tentativo di portare fuori strada il giocatore. Di walking simulator si parla sempre più spesso e per quanto l’espressione sia discutibile bisogna prendere atto che funziona: si rivela infatti estremamente comoda quando si tratta di definire quel corpus di titoli che, a partire da Dear Esther, pongono particolare enfasi su esplorazione e narrazione. Niente nemici, o quasi, niente sfida.

Layers of Fear spinge all’estremo il concetto di walking simulator e lo colora di terrore e angoscia. Il titolo dei polacchi di Bloober Team non può che definirsi ambizioso: nelle quattro-cinque ore necessarie per arrivare ai titoli di coda conduce per mano il giocatore in un mondo schizofrenico e malsano, un mondo in cui l’arte si confonde con la realtà, tra citazioni pittoriche e videoludiche. Partiamo da quelle videoludiche: la mente corre a P.T., il playable teaser con cui Konami aveva annunciato il ritorno di Silent Hill. Il tema della pazzia, di cui Layers of Fear è permeato, è una costante della serie Konami. Bloober Team dimostra di conoscere a menadito la retorica dell’orrore, non solo di quello videoludico. Tra stanze e corridoi claustrofobici sfilano nell’ordine tutti i clichè del genere: ratti, figure inquietanti e traballanti, muri ricoperti di scritte, oggetti che cadono, porte socchiuse, risate di bambini, bambole, lampi e tuoni, il rumore del vento. Sulla carta nulla di nuovo, ma l’esecuzione è da manuale. C’è poi il contesto a fare la differenza: il mondo dell’arte, genio e follia per definizione. Nature morte che bucano la tela, sguardi immobili ma pronti a sciogliersi. Celebri tele adornano le pareti di Layers of Fear: da Rembrandt a Goya, passando per Füssli e Reni.

L’OPERA INCOMPIUTA

Esiste una realtà oggettiva o è la nostra percezione a definire ciò che è reale? Layers of Fear gioca su questa ambiguità sin dal principio. I primi passi nella villa del protagonista non sono rassicuranti: si respira aria di solitudine, fuori piove. La casa nasconde un passato che precede e va oltre quelle stanze. Il protagonista è un pittore in cerca d’ispirazione. Nel suo studio campeggia una tela ancora bianca, che attende di essere completata. Il viaggio inizia proprio di fronte a quella tela: la casa muta forma, costantemente. A noi il compito di vagare per stanze e corridoi che si deformano e sfidano ogni logica. Ti volti e quella porta non c’è più; ti volti ancora e una tela ti fissa, là dove prima non c’era alcuna tela.

Layers of Fear è un viaggio allucinato che ha origine dai dettagli. Gli scenari sono sovraccarichi: di simboli, di quadri, di documenti da leggere, di oggetti apparentemente quotidiani che si trasformano. La narrazione è affidata proprio agli ambienti e a quei pochi fogli di carta. Sta al giocatore ricostruire il racconto, interpretare.

LA SOTTILE LINEA RETTA

Layers of Fear è un titolo pretenzioso, che ha fatto propria l’ossessione del suo protagonista. Talmente impegnato a mettere in scena l’orrore da dimenticare una pedina importante: il giocatore. Il titolo Bloober Team strizza l’occhio al walking simulator ma dimentica la componente esplorativa, o meglio, la riduce ai minimi termini. L’esplorazione, per definizione, è un coacervo di possibilità. La libertà, in un videogioco, è pura illusione, ma il meccanismo regge finché il giocatore crede ancora di essere al comando. In Layers of Fear l’esplorazione diventa talmente lineare da annullarsi. Layers of Fear è una linea retta che conduce al prossimo evento scriptato, un’esperienza su binari invisibili. Di stanza in stanza, si ha l’impressione di assistere a uno spettacolo strabiliante che viene messo in scena non grazie al giocatore, ma nonostante il giocatore. La struttura è lineare e circolare allo stesso tempo: si procede ad esplorare la casa, vista attraverso la mente contorta del protagonista. Talvolta (di rado) ci si imbatte in qualche puzzle da risolvere, ma il più delle volte si tratta di osservare gli eventi, di seguire quel suono, di muoversi tra luce e penombra. Si riparte poi dallo studio, mentre la tela prende vita.

L’HORROR TRADITO

Ad addentrarsi troppo nel mondo di Layers of Fear si corre il rischio di rovinare la sorpresa al giocatore. Il titolo è tanto lineare quanto potente e affascinante dal punto di vista della messa in scena. Il sovraccarico simbolico, tuttavia, rende l’esperienza non solo criptica, ma alla lunga inefficace. I cliché si avvicendano, uno dopo l’altro. Il giocatore prosegue per scoprire quale meraviglia scriptata lo attende nella stanza successiva. È un modo strano di approcciare un videogioco. L’orrore lascia spazio alla curiosità, al desiderio di continuare lo spettacolo. L’angoscia e la tensione non sono indotte nel giocatore, ma rappresentate sullo schermo.

Layers of Fear non è un’opera che incute paura, è un’opera che racconta e mette in scena la paura. Con un gusto visivo eccezionale, sia chiaro, ma tradendo il genere cui appartiene. Dimostrandosi infine sin troppo compiaciuta. Eppure, nonostante il voto, nonostante l’ambiguità del risultato, vi consigliamo di giocarci.

GIUDIZIO

Layers of Fear spinge all’estremo il concetto di walking simulator. A fronte di una direzione artistica ineccepibile, il titolo dei polacchi di Bloober Team pecca di eccessiva linearità. L’orrore rimane in superficie, tra manierismo ed eccessivo autocompiacimento. In ogni caso, da provare.