Sekiro: Shadows Die Twice

Sekiro: ascesi e immortalità sul monte Kongo

Un viaggio in montagna, dalla lore della nuova creatura di From Software alla tradizione.

Nella vostra salita al monte Kongo di Sekiro: Shadows Die Twice fermatevi ogni volta che potete – nemici permettendo – e guardatevi intorno. Vedrete le ampie vallate che si estendono dinnanzi a voi, ma soprattutto potrete ammirare le turrite e splendenti montagne che vi circondano, altissime e innevate. Osservatele con attenzione. Non potrete mai raggiungerle. Perché il videogioco non lo prevede, certamente, ma lasciamo da parte questo elemento esterno e caliamoci nel mondo di gioco: molto probabilmente non sono percorribili, nessun temerario ha ancora conquistato quelle vette vergini. Esse, allora, rimangono il simbolo del sublime inaccessibile, come tante altre vette in tante altre parti del mondo. In Occidente le montagne, scrive Franco Brevini in un suo saggio (Simboli della montagna, Il Mulino 2017) erano la casa degli dèi, ma erano anche maledette, pericolose e gelide, qualcosa da cui tenersi alla larga e che spesso nemmeno ricevevano un nome. 

Il monte Kongo appare allora un luogo liminale, a metà fra due mondi. Si staglia sopra alle pianure, lontano dal brulicante tran tran quotidiano della vita, ma resta al di sotto delle vette più alte, quelle riservate alla presenza numinosa delle divinità. 

Durante la salita verso la vetta ci sentiamo progressivamente sempre più vicini al cielo, un po’ come in questo ku di Bashō (che riportiamo dall’edizione a cura di Lorenzo Marinucci: La vita felice 2017, p. 82):

Hibari yori

sora ni yasurau

tōge kana

più alto dei passeri

riposo nel cielo

un passo montano

Ma quel cielo non lo raggiungeremo mai, così come mai l’hanno raggiunto i monaci del monte. Essi saranno rimasti lì, di generazione in generazione, a meditare, probabilmente struggendosi per la bellezza effimera e irraggiungibile che suscita la montagna. Proviamo a immaginarli partendo da questa frase del romanzo Il suono della montagna (1949) del Premio Nobel Yasunari Kawabata, nella traduzione di Atsuko Ricca Suga: “La notte di luna appariva profonda, e la profondità si estendeva in lontananza, in senso orizzontale. Non era ancora il cielo di agosto, ma gli insetti cantavano già. Si udiva il suono della rugiada che, a goccia a goccia, cadeva da una foglia sull’altra. Poi, all’improvviso, Shingo udì il suono della montagna”.

Sono quei segnali della natura, piccoli e sottili, che ci rimandano a un “oltre”, alla ricerca di un qualcosa che spesso non sappiamo nemmeno cogliere, ma di cui percepiamo il richiamo. La bellezza di tutto questo sta anche nella sua componente effimera e caduca, nel suo rapporto con la morte (chi volesse approfondire può leggere un saggio come Kire: il bello in Giappone di Ryōsuke Ōhashi, nell’edizione italiana a cura di Alberto Giacomelli).

Il mondo di Sekiro: Shadows Die Twice, però, non è il nostro, e un ambiente come quello del monte Kongo potrebbe aver contribuito ad accrescere il desiderio di immortalità dei monaci. Piace pensare, insomma, che possa esserci stato al fondo un desiderio di bellezza e di ascesi, dietro a questa scelta, seppur abbia poi assunto percorsi fuorvianti e abbia portato a diverse atrocità, testimoniate da corpicini dei bimbi che si trovano lungo il pendio della montagna.

Nell’ascesa si inserisce allora il suo opposto: il sottosuolo, l’abisso, rappresentati emblematicamente dall’immagine del verme che rende immortali. Questo collegamento fra mondo divino e mondo infero è sottolineabile su più livelli. Uno di questi è esterno al videogioco e si lega alla storia della più famosa montagna giapponese: il Fuji. Questa sacra montagna racchiude l’ingresso del Paradiso, ma anche la “caverna” o “pozzo” detta hito-ana (o hitoana) che conduce agli inferi, da cui nessun essere umano è mai uscito vivo. All’interno del gioco, invece, il passaggio per il monte Kongo è un tunnel sotterraneo, popolato da varie mostruosità: è il sottosuolo che si unisce alla montagna.

Anche in Dark Souls avevamo vette e abissi, simboli ideali della spartizione del mondo fra le sue potenze. Da un lato Anor Londo, simbolo “ufficiale” del potere, con Lord Gwyn che guidava come un sovrano le sorti del mondo; dall’altro forze sotterranee, come quelle di Nito e della Strega, che a loro volta indirizzavano l’andamento dei viventi operando in maniera meno esplicita. Sostanzialmente è la differenza fra i verbi latini ducere e agere: il primo riguarda chi si pone davanti a qualcuno per condurlo e guidarlo, il secondo è chi sospinge da dietro. Gwyn è il condottiero che dall’alto del suo monte guida eserciti e destini stando in prima fila; Nito e la Strega sospingono dal basso. Sono poteri idealmente classificabili nelle opposizioni di “luce/ombra” e “maschile/femminile” (il monte eretto e ‘fallico’ da un lato, la caverna ‘uterina’ dall’altro). Ben presto si scopre poi che questo schema generale va a frammentarsi, formando un panorama assai più complesso, in cui, per esempio, a reggere Anor Londo resta Gwyndolin, in tutto e per tutto opposto al padre: è umbratile, femmineo, ma soprattutto è un manipolatore che tira i fili da dietro le quinte, non un condottiero in testa al suo popolo.

La situazione di Sekiro è differente: il tema della montagna/abisso non si collega ai Lord, ai poteri dei tempi passati, ma nasce da un semplice gruppo di monaci. Volendo esser più precisi, potrebbero essere definiti degli yamabushi, termine che definiva gli asceti giapponesi che vivevano sui monti, figure quasi leggendarie, che praticavano le arti marziali come forma di ascesi e seguivano lo Shugendō (termine che, peraltro, compare esplicitamente in Sekiro). Proprio fra di loro si sviluppa un attaccamento carnale, morboso, per questo mondo. Niente di sessuale (il termine “carnale” potrebbe essere frainteso, in tal senso), è più un paradosso: l’ascesi stessa mi conduce al desiderio dell’immortalità, e per ottenerla ripiombo nella mia dimensione carnale più bassa, in cui non importa nemmeno che il corpo divenga solo un mezzo cadavere vivente, roso da un verme, ciò che conta è che si rimanga vivi per meditare.

L’ascesa è la realizzazione di sé, è quel percorso che dovrebbe anche comprendere l’accettazione della morte, il distacco, nel raggiungimento dell’illuminazione, ma qualcosa si è incrinato in questo percorso, negli yamabushi del monte Kongo, e i risultati sono sotto gli occhi del videogiocatore. Pochissimi hanno resistito a questo richiamo. Uno è il monaco nella Sala delle Illusioni, ormai estraneo dal mondo (anche fisicamente) e completamente distaccato da esso). L’altro è Kotaro, salvato probabilmente dal suo essere un “sempliciotto”, cosa che lo mantiene un puro di cuore con desideri molto più semplici di quelli che hanno corrotto gli altri monaci: è come un bambinone, e raramente i bambini riflettono a fondo sulla morte e l’immortalità.

C’è una bella immagine di Kano Motonobu (1476-1559), il Mandala del pellegrinaggio al monte Fuji, in cui la montagna avvolta dalle nubi è così imponente da sovrastare persino il sole e la luna. Con lo sguardo possiamo seguire il verticale percorso dei pellegrini che si inerpicano sul monte, sulla cui sommità sono posizionati tre Buddha seduti, simbolo del raggiungimento dell’illuminazione.

Come molti avranno probabilmente notato, fra le varie statue sul monte Kongo ci sono diverse composizioni triadiche, spesso in luoghi abbandonati. Non ci son state furie iconoclaste, nessuno ha distrutto le statue, e i monaci sembrano aver ancora una certa venerazione, ma è come se nessuno si curasse più di tanto di queste statue a blocchi di tre. La loro dimenticanza, allora, potrebbe rappresentare più di molte altre cose quello che è stato il percorso di questi monaci: un tradimento dell’ascesa per ricadere nella carnalità.