Nel 2018, il regista e producer Jean-Simon Chartier presentò all’Hot Docs Festival di Toronto un documentario indipendente basato sulla genesi di For Honor, il gioco d’azione lanciato da Ubisoft nel 2017. Chartier, ex-pubblicitario canadese col pallino per il giornalismo, non era particolarmente interessato al mondo dei videogiochi in sé, bensì alle difficoltà che si celano tra le mura di una software house del calibro di Ubisoft, la cui sede di Montréal è a due passi dal suo ufficio. Complice una particolare crescita del personale che si aggirava nell’edificio, Chartier ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione da Ubisoft per girare un documentario, seguendo con particolare interesse le condizioni di lavoro dei dipendenti coinvolti nello sviluppo e il bilanciamento tra la loro vita privata e il lavoro.
Il documentario, lanciato nelle scorse ore nel catalogo di Netflix, assume particolare rilevanza in un momento storico in cui un team come BioWare (ma anche Rockstar Games, e Bungie ancor prima) deve fare i conti con un’indesiderata attenzione mediatica dopo la pubblicazione di un reportage di Kotaku, che ha fatto luce sulla vera storia dietro allo sviluppo di Anthem. Una storia che racconta come la mancanza di una figura forte al comando e le scarse condizioni di lavoro createsi durante lo sviluppo abbiano condizionato l’evoluzione di un progetto nato originariamente più di sette anni fa. Mai come oggi, infatti, la testimonianza offerta da Chartier attraverso due anni e mezzo di video, interviste e dietro le quinte dimostra come creare videogiochi sia tremendamente difficile, come i rischi, le sfide e le pressioni affrontate durante la lavorazione di un singolo videogioco possano portare uno sviluppatore (o un intero team composto da centinaia di persone) a crollare.
Playing Hard è un documentario non ufficiale, sul quale Ubisoft non ha avuto alcun controllo (se non, chiaramente, il divieto di pubblicare materiale inerente al gioco prima della pubblicazione di For Honor). Data la politica di assoluta trasparenza da parte della software house franco-canadese sulle proprie condizioni di lavoro, Chartier ha potuto raccontare la storia che aveva in mente senza dover tagliare alcuna scena. Il risultato è un racconto intenso che, in meno di un’ora e mezza, porta all’attenzione dello spettatore le ispirazioni, le emozioni, i contrasti e le difficoltà che si manifestano nello sviluppo di un blockbuster videoludico moderno, raccontando il tutto dalla prospettiva degli uomini che lottano ogni giorno per far sì che quella visione diventi realtà.
Playing Hard è la storia di una missione, quella del creative director Jason VandenBerghe, di dar vita al gioco dei suoi sogni. Il gioco che l’uomo ha bramato ardentemente negli ultimi dieci anni (al punto da sperare che qualcuno avesse l’idea di svilupparlo) prima di trovare in sé la forza, nel 2013, di proporne il concept agli studi di Ubisoft Montréal. Creare videogiochi è difficile, ma realizzare un nuovo franchise lo è ancora di più: c’è il rischio che il pubblico non apprezzi una nuova idea, o che le aspettative siano talmente elevate da fallire miseramente una volta lanciato il prodotto sul mercato. Nei primi otto mesi di vita del progetto, Chartier e la sua troupe hanno potuto muoversi liberamente all’interno dell’edificio, mostrando le varie fasi che rappresentano la nascita dell’idea, il tentativo di VandenBerghe di far recepire la propria visione a un nucleo ristretto di sviluppatori, e il rush necessario a mostrare un prototipo funzionante ai dirigenti esecutivi di Ubisoft. Per otto mesi, la troupe ha potuto raccogliere testimonianze e sbirciare dietro le quinte, prima di ricevere l’ordine da parte di Ubisoft di abbandonare l’edificio e interrompere la produzione del documentario.
Alcuni mesi più tardi, una volta riottenuta l’autorizzazione da parte della software house, Chartier ha trovato una situazione leggermente diversa dall’atmosfera di entusiasmo iniziale percettibile al momento di lavorare al prototipo. Con la presentazione ufficiale prevista all’E3 2016 e una data di lancio genericamente fissata ai primi mesi del 2017, la produzione era ormai entrata nel vivo e gli sviluppatori non potevano permettersi passi falsi. Le risorse necessarie erano sempre maggiori, e il team al lavoro sul gioco era passato da un nucleo di 40 persone a più di 500 sviluppatori sparsi in ogni parte del mondo.
Playing Hard si focalizza principalmente su tre figure: VandenBerghe, creative director, ricopre per ovvi motivi il ruolo principale, ma al suo fianco vanno lentamente mostrandosi altri due personaggi fondamentali nell’evoluzione del brand, come il producer Stéphane Cardin e il responsabile della comunicazione Luc Duchaine. Nessuno dei tre “attori” in scena vive un momento particolarmente semplice della propria vita. A dispetto del suo look da duro, VandenBerghe è un uomo sensibile e mosso da una passione che traspare in ogni istante del documentario. Cardin, divorziato e padre di due splendide bambine, deve fare i conti con il fallimento del suo ultimo progetto videoludico e la voglia di riscatto, tentando allo stesso tempo di bilanciare la sua carriera professionale e la sempre più risicata vita privata. Duchaine, infine, è colui che è chiamato a promuovere il verbo di For Honor in tutto il mondo, a comunicare cosa rende il gioco diverso da ogni altro prodotto sul mercato, ed è intenzionato a farlo senza compromessi. Anche a costo di mettere a rischio la propria salute.
E quando, dopo aver immaginato il suo “bambino” per dieci lunghi anni, finalmente Jason riesce a ottenere l’approvazione del progetto da parte di Ubisoft, la reazione del creative director è sincera, estremamente genuina, a conferma di come l’industria sia mossa principalmente dall’entusiasmo e dalla passione verso il medium che, sin dall’infanzia, ha riempito le nostre giornate. VanderBerghe aveva immaginato così tanto di creare il gioco dei suoi sogni che una volta iniziato lo sviluppo vero e proprio, ha tirato fuori l’aspetto peggiore del suo carattere. La voglia di rendere Hero (nome del prototipo di For Honor) un gioco perfetto ha spinto il creative director a trattare con aggressività gli sviluppatori del team, al punto da essere spesso e volentieri incompreso. Man mano che il gruppo cresceva, diventava difficile per VanderBerghe ricucire il rapporto con i ragazzi feriti da un modo di fare sgarbato, un’espressione infelice, una reazione negativa. Perdere dieci, venti, trenta minuti per risolvere il dissidio con una persona in un gruppo di quaranta persone era già difficile di per sé, farlo in un team di cinquecento persone era diventato praticamente impossibile. L’annuncio di For Honor era ormai alle porte. Non c’era più tempo da perdere.
Tuttavia, man mano che il gruppo andava espandendosi, VanderBerghe avvertiva la sensazione di perdere progressivamente il controllo della propria creatura: più ci si avvicinava alla data di lancio e più il gruppo necessitava di nuove risorse per rispettare le deadline, e con un numero maggiore di figure responsabili di differenti aspetti del gioco, VanderBerghe stava lentamente preparandosi ad abbandonare definitivamente il progetto a cui egli stesso aveva dato i natali. Il documentario punta a mostrare come il visionario creative director sia stata estromesso dalla sua stessa creazione, e le conseguenze di questa situazione. “Mi trovo in un momento particolarmente oscuro”, confida uno stanco Jason a Yannis Mallat, amministratore delegato di Ubisoft Montréal, durante il party tenuto per festeggiare il raggiungimento della fase Gold di For Honor. “Sento quasi come se mi stessero privando di mio figlio”. E in effetti, il coinvolgimento di VanderBerghe nello sviluppo del gioco era ormai diventato pressoché nullo. L’introduzione di nuove figure chiave nel team aveva fatto sì che ognuno avesse un ruolo ben preciso, relegando VanderBerghe in una piccola nicchia oscura, nella quale il creative director si rifugiava per lavorare a ciò che restava della trama. “Nessuno mi ascolta più”, svela il creative director sul finire del documentario. “Ormai a nessuno interessano più le mie opinioni”.
Quali sia stato il motivo alla base del contrasto che ha spinto VanderBerghe ad allontanarsi da For Honor non è dato saperlo: il documentario non tenta di puntare il dito contro nessuno, ma punta a offrire un punto di vista equo su quello che succede dietro le quinte di un progetto così rischioso. Mentre l’attenzione si sposta maggiormente sulle figure di Cardin e Duchaine, scopriamo come i due responsabili siano stati costretti a prendere decisioni difficili per la salvaguardia del progetto, per assicurarsi che il quartier generale di Parigi non decidesse di cancellare il gioco, per far sì che For Honor vedesse la luce dopo quattro anni di intenso lavoro. Rimuovere la modalità multiplayer split-screen per assicurarsi che la vetrina di lancio fosse rispettata, nonostante la feature fosse stata descritta come una delle più importanti del pacchetto, è stata solo una di queste decisioni.
La figura di Cardin, tormentata dall’idea di un fallimento e da una condizione familiare che lo vede separato dalle due figlie, mostra come questo lavoro possa arrivare a sfiancare una persona a tal punto a costringere il producer di For Honor ad allontanarsi senza preavviso prima delle festività natalizie per restare isolato, lontano dal mondo, per settimane intere al fine di ritrovare sé stesso. La necessità di Duchaine di viaggiare per il mondo per promuovere il lancio di For Honor ha visto il responsabile del marketing in preda a una situazione di stress che ha portato a una fame nervosa, così grave da costringere l’uomo a ricorrere a un respiratore per evitare possibili attacchi di cuore.
Sono tutti elementi che aiutano lo spettatore a percepire le emozioni e sensazioni che si provano durante il ciclo di lavorazione di un videogioco, a comprendere quanto sia diventato difficile, per chi fa questo lavoro, riuscire a portare a termine un nuovo progetto ambizioso senza compromettere la propria salute. Chi si limita a giudicare e criticare l’operato di una software house senza pensare alle persone che compongono il team e a quanto possa essere duro trascorrere quattro o cinque anni della propria vita in un clima del genere, probabilmente dovrebbe fermarsi, ritagliarsi un’ora e mezza del proprio tempo e osservare con attenzione Playing Hard. Capire che dietro al logo di una software house ci sono persone, proprio come noi, che sputano sangue ogni giorno per creare un prodotto in grado di intrattenere chi lo gioca.
Playing Hard mostra con una trasparenza assoluta gli aspetti migliori e peggiori di quest’industria, le gioie e i dolori, le speranze e le paure, le aspettative idilliache e la dura realtà. Lo fa narrando tre storie dall’elevato impatto emotivo, storie che oggi sono sempre più frequenti. Se non ci credete, chiedete agli sviluppatori che hanno preso parte alla complicata storia di Destiny e ai suoi continui reboot, o ai dipendenti costretti a weekend di straordinari per garantire che Red Dead Redemption 2 arrivasse sul mercato entro la data prefissata. O ancora, chiedetelo ai ragazzi di BioWare che, per sette anni, hanno dovuto cambiare continuamente concept di gioco per adattarsi alle tendenze di mercato e trovare il favore dei piani alti di EA, inserendo quasi per disperazione delle feature (come il sistema di volo di Anthem) con il solo scopo di impressionare un dirigente esecutivo. Realizzare un videogioco al giorno d’oggi è diventato tremendamente complesso. Se cercavate una conferma, allora Playing Hard è il documentario che fa per voi.