La Marcia della Libertà – Detroit: Become Human e il razzismo

Può un videogioco sorpassare le barriere ludiche per raccontarci qualcosa di estremamente reale e complesso? Una domanda che trova la sua elaborazione nella nostra recensione di Detroit: Become Human dove abbiamo ampiamente illustrato la capacità di David Cage di creare una narrativa forte e decisa, capace di coinvolgere e far riflettere.

Al seguito dell’uscita dell’esclusiva PS4, non tutta la comunità di giocatori ha accolto bene il prodotto, proprio per via della scarsa presenza di gameplay e dell’eccessiva voglia di raccontare qualcosa che si avvicina alla denuncia sociale. Tra i vari schieramenti, c’è chi si è battuto per dimostrare come Detroit: Become Human sia la rovina del divertimento e chi, invece, ha sostenuto che l’opera di Cage non è stata abbastanza audace da poter raccontare con attenzione i temi che tratta, tra cui la forte polemica politica e governativa.

Ognuno di noi, specialmente dal lato della critica videoludica, ha visto in Detroit: Become Human un qualcosa di particolare, un messaggio più o meno manifesto che ha a che fare con gli argomenti più disparati: l’amministrazione Trump, i flussi di migranti, la ricerca della felicità e via dicendo. Indubbiamente è palese l’intento di voler parlare di tematiche importanti, come la violenza domestica o il suicidio, ma in questo articolo andremo a esaminarne una in particolare, un filo rosso che, a nostro avviso, è quello più importante per capire appieno la condizione degli androidi e la loro evoluzione nei percorsi dei tre protagonisti: il razzismo e la condizione degli afro americani nel periodo più buio della storia americana.

Prima di approfondire, è doveroso sottolineare che, per quanto complesse siano le tematiche trattate in Detroit: Become Human, quest’ultimo è ben lontano dall’essere un documentario completo e approfondito su di esse. Pur essendo un prodotto profondo e un’opera molto autoriale, aspettarsi di avere una chiara analisi di un determinato fenomeno è lungi da quello che si prefissa un qualsiasi mezzo volto a intrattenere. Qui si può riflettere, si può metabolizzare e ragionare a livello morale, etico e umano, ma siamo ben lontani dal poter criticare il governo a stelle e strisce o meccaniche sociali semplicemente da quanto vediamo tramite gli occhi di Connor, Markus e Kara.

Tuttavia, il fattore determinante che rende preziosa questa esperienza è proprio l’interattività con cui si coinvolge il giocatore, facendogli confrontare in prima persona le eventuali conseguenze create in un ambiente “immersivo”. Ciò permette un approccio frontale che imprime i messaggi etici/morali del gioco nella mente di chi ne è partecipe, sorpassando la semplice visione d’immagini e testi che, per quanto utili, rimarranno sempre estranei a chi li osserva.

ANDROIDS NOT ALLOWED

La prima domanda da porci è “In quale condizione sono gli androidi di Detroit: Become Human?”. All’apparenza la risposta può essere semplice se si pensa nella classica maniera che vede i robot oppressi utilizzati come semplici oggetti, strumenti da poter utilizzare per fare le consegne o le faccende domestiche, un po’ come la simpatica Rosy dei Jetsons immaginati da Hannah & Barbera. In realtà, questa visione è molto fuorviante nel ricco contesto di Detroit: Become Human.

La fantascienza, specialmente cinematografica, ci ha inculcato l’idea di androidi simili a dei computer ambulanti che prima o poi scoprono le emozioni/l’umanità e riescono ad abbandonare la freddezza da frigorifero senziente per provare a ribellarsi e ottenere lo status di umano. Ripensiamo a Io, Robot per esempio, nel quale i vari androidi sono ancora lontani dall’assomigliare all’uomo e sono molto asettici nella loro rappresentazione fisica e caratteriale.

Sicuramente la Detroit di David Cage non ha scelto questo approccio, anzi è molto distante dall’immaginario dei robot simboleggiati da bulloni e scheletri di silicone. Eppure, in una certa qual misura, il film con Will Smith presenta dei palesi contrasti volti a sottolineare come il poliziotto di colore protagonista sia un elemento importante per capire come la società moderna si rapporti con gli androidi, soprattutto dal punto di vista storico di una minoranza oppressa. Le dinamiche di Connor all’interno del distretto di polizia simboleggiano proprio questo meccanismo particolare, specialmente nei riguardi di Hank.

Se guardiamo invece al recente Westworld, possiamo avere una buona idea di come l’aspetto esteriore identico alla razza umana sia un fattore estremamente importante per avere una narrativa più coesa all’evoluzione da macchina a essere senziente. Anche il discorso dei sentimenti e delle emozioni è comune con l’opera di Cage, soprattutto perché in entrambe le produzioni vengono utilizzati sapientemente come asset per rendere il robot più simile all’esperienza vera, in modo da evitare quel disagio o distacco che un affare di metallo scheletrico potrebbe avere nell’ambiente domestico. La differenza con Detroit: Become Human, nonché pilastro centrale del titolo di Quantic Dream, è proprio il fatto che in quest’ultimo gli Androidi non vengono fatti spacciare “completamente” per umani, bensì possiedono numerosissimi segni distintivi che ne indicano la natura artificiale, in modo da non permettere mai un’integrazione netta (mentre in Westworld si punta a rendere realistica l’esperienza del parco).

Da questi due paragoni possiamo tirare un po’ le somme sulla natura degli androidi di Detroit. Essi sono stati chiaramente concepiti per essere a immagine e somiglianza totale degli esseri umani, tanto da renderli irriconoscibili senza i segni esteriori che li diversificano. La richiesta dei loro padroni è di integrarsi nelle loro vite quanto basta per essere utili, ma non possono farlo a livello affettivo, sociale e civile per evitare che diventino indipendenti.

La loro crescente “intrusione” all’interno della quotidianità diventa oggetto di dubbi e incertezze, non tanto per la loro funzione ma quanto per una questione di pregiudizi riguardanti la loro natura, costantemente segnalata attraverso simboli esteriori come l’iconico led sulla tempia. Il lavoro più umile viene affidato agli androidi e tutto un ceto della popolazione (quello meno facoltoso e che non può permettersi un proprio androide) finisce per odiare questo invasore venuto a prendergli il posto, soprattutto se anche l’intrattenimento e la ricerca vedono al loro centro le macchine.

L’odio finisce per colpire le dinamiche sociali, tanto da creare aree per androidi sugli autobus e locali pubblici che non permettono l’entrata ai robot. Questo perché il malcontento e la paura del diverso creano nei cittadini delle associazioni mentali sgradevoli che vedono i robot come qualcosa di malvagio, sporco, al di sotto della gente normale (o della razza umana), perciò non meritano più spazio del dovuto o le stesse attenzioni che la specie dominante (presente in massa) dovrebbe avere.

Già da questi pochi elementi, il paragone con la condizione della razza afroamericana ai tempi di Martin Luther King viene da sé, specialmente se poi nel gioco vengono inseriti palesi riferimenti come l’iconica frase “I Have a Dream” e scene provenienti dai tumulti di Selma. La proiezione di quei tempi all’interno di un quadro moderno è molto particolare come approccio, proprio perché questa volta, attraverso la narrativa dei robot, viene sottolineato come la razza umana abbia trattato una sua frangia come un mero “strumento”, qualcosa da utilizzare e da gettare senza riconoscerne i diritti fondamentali dell’uomo proprio perché la minoranza non veniva ritenuta tale. Alla luce di ciò, può Detroit: Become Human essere un’importante riflessione sul razzismo nel quadro americano e, per estensione, globale? Quanto è importante il messaggio che lancia e qual è l’utilizzo che può farne un giocatore dei giorni nostri?

LA VOCE ROBOTICA DEGLI OPPRESSI

Fin dalle prime ore di gioco, la condizione in cui versano gli androidi è piuttosto chiara, soprattutto perché un background di ingiustizie crescenti serve a giustificare il momento storico per l’identità robotica che l’utente vivrà nel corso dell’esperienza.

Quella specie di movimento di resistenza globale chiamato rA9 (di cui volutamente non vi diamo troppi dettagli) ha un’impostazione molto simile a quanto visto nelle gocce che fecero traboccare il vaso della comunità di colore degli Stati Uniti. Mentre quest’ultima ha scelto una strada fatta di proteste pacifiche, in Detroit: Become Human la reazione all’oppressione viene totalmente messa nelle mani del giocatore, e qui a nostro avviso risiede la chiave di volta per capire l’estrema utilità del messaggio veicolato dal mezzo videoludico, già menzionato nelle righe d’apertura.

Nelle scene iniziali, saremo chiamati a compiere determinate scelte che saranno essenziali per definire la piega della narrazione, arrivando a trovare diversi sbocchi a seconda di alcuni dettagli suscettibili al cambiamento. Il sistema di Detroit: Become Human include anche alcune indicazioni circa il rapporto che abbiamo con diversi personaggi che accompagneranno i nostri protagonisti. Tuttavia, tra queste opzioni e nel costante background, vediamo la presenza di quella che può essere definita “opinione pubblica”. Questo parametro quasi invisibile nelle prime ore è in realtà quello costantemente sbattuto in faccia al giocatore, lontano dalle interazioni principali dirette ma sempre presente in riviste, televisioni e dialoghi. Ciò che la gente pensa degli androidi non solo è l’elemento di fondo ma anche una parte integrante che deve esse considerata dal giocatore nel fare le sue scelte, soprattutto nella sezione finale.

Un esempio di questa dinamica è sempre all’inizio del gioco, dove potremmo essere chiamati a commettere atti criminali per necessità maggiori. Dal nostro punto di vista, esterno alla comunità di Detroit, qualsiasi azione compiremo sarà giustificata da un bene maggiore, come difendere una bambina dagli abusi del padre o decidere se valga la pena uccidere gli umani che ostacoleranno il nostro cammino. Arrivando nelle fasi di gioco più tardive, tale meccanismo vedrà la sua totale espansione in dinamiche che coinvolgono gruppi di persone e i mass media. C’è un’evidente volontà di far riflettere il giocatore attraverso il rapporto di causa-conseguenza su quello che vuol dire dare il via a un forte cambiamento sociale, cosa significhi affrontare in prima persona una lotta per la rivendicazione dei diritti e, soprattutto, cosa rappresenti vestire i panni di una persona in grado di smuovere intere masse fisiche e ideologiche.

Avere un approccio violento o pacifista sarà proprio la rappresentazione di quelli che sono stati i diversi movimenti anti-razziali affrontati dall’America nel corso del tempo (o dall’Europa in epoca nazista, anche se in questo i richiami sono davvero pochi). Dialettica similmente affrontata nei vari film dedicati alle figure di spicco dello scenario della liberazione afro-americana, tra cui l’ottimo Malcolm X con Denzel Washington. In quest’ultima pellicola in particolare si hanno delle situazioni molto, ma molto simili a quelle presenti in Detroit: Become Human. Ad esempio, le continue manifestazioni pacifiche tramite l’occupazione di suolo pubblico costantemente ostacolate dalla polizia, oppure la poca fiducia riposta nel metodo pacifico da parte dei compagni di Malcolm, le stragi che esigono vendetta e la condizione con cui un popolo cerca di guadagnare i proprio diritti – tra cui quello al voto, menzionato anche in Detroit – attraverso il dialogo invece delle armi, così come le riunioni segrete e gli sgomberi coatti.

Alla luce di quanto si evince nelle ultime battute clou del gioco di David Cage, si ha un quadro completo che va a denunciare proprio il difetto più grande dell’umanità: l’incapacità di accettare la diversità anche in era moderna. Per quanto i tempi possano cambiare e la tecnologia avanzare, il seme dell’odio sembra essere una costante inscindibile dell’animo umano, ne siamo testimoni ogni giorno attraverso le costanti politiche di segregazione razziale, sia internazionali che nazionali.

Gli androidi sono stati creati esattamente come noi con l’intento di essere in grado di simulare emozioni e arbitrio nonostante ci venga ripetuto che questi siano comportamenti anomali (perché dotare un robot di lacrime se si vuole utilizzarlo come strumento e basta?), l’unica cosa che li differenzia davvero è proprio la loro stessa essenza, in grado di sorpassare i grandi difetti della nostra razza. Proprio perché creati per essere più efficienti degli umani, la scelta di avere come protagonisti questi rappresentanti senzienti risulta azzeccata nella volontà del team di sviluppo di sottolineare come spesso l’odio e la discriminazione nascano dalla paura di vedere chi reputiamo inferiore essere, in realtà, molto meglio di di noi stessi.

Costretti perciò a simulare una pelle non loro per sottostare al costume umano, e quindi a fingere vivere come se fossero tali, ribellandosi ci insegnano che la vera uguaglianza non sta all’esterno, ma in ciò che c’è dentro ogni essere vivente: l’anima. Dopo tutto quello che abbiamo passato nel corso della nostra lunga storia, dopo le migliaglia di lotte per la civilità e i centinaia di cadaveri che hanno riempito i ghetti americani o i campi di concentramento, servivano davvero delle macchine per ripeterci ancora una volta ciò che davvero definisce il concetto di umanità? Serviva avere nuovi martiri da sacrificare in difesa dell’uguaglianza e dei pari diritti?

Detroit: Become Human è dunque un enorme interrogativo volutamente lasciato aperto, un’esperienza non definita che vi porta costantemente a riflettere sulle vostre scelte ideologiche, identità individuale e senso morale. La libertà di un popolo, così come la vostra convinzione di definirlo tale, risiederà nelle mani di ognuno di voi. Sarete sorpresi nello scoprire quanto le vostre certezze etiche saranno fragili di fronte alle grandi domande poste dalle vite tumultuose di Kara, Markus e Connor. Come umanità, abbiamo ancora tanta strada da fare, perfino nel futuro più avanzato. Se un videogioco può aiutare a ricordare e a sensibilizzare, non siamo di certo in una posizione così innocente da poterlo guardare con sufficienza.