Diciamolo subito, SEGA Master System è sempre stato considerato il cugino sfigato dai possessori del più fiammante Nintendo NES (ma forse anche da chi non lo possedeva). Purtroppo, la console casalinga di SEGA non ha saputo ritagliarsi lo stesso spazio della rivale Nintendo (tranne che in Brasile), anche se ha saputo regalarci centinaia di giochi che meritano di essere ricordati, giocati e, in questo caso, sfogliati.
Il nuovo numero di Pixel Cartacei non poteva che essere dedicato al nuovo volume di Bitmap Books, SEGA Master System: a visual compendium, che analizza con sapiente cura la storia della console giapponese attraverso immagini e gli immancabili aneddoti. Il libro racchiude dentro alle sue 424 pagine una sintesi dei titoli migliori apparsi sulla console, le conversioni ed esclusive, i miracoli di programmazione e i giochi che hanno segnato poi un’epoca e sono diventati grandi nel passaggio a Mega Drive o Dreamcast, come ad esempio Phantasy Star, recentemente tornato ad animare le discussioni dei giocatori occidentali visto la sua prossima uscita per le console dell’attuale generazione. Prima di proseguire, però, concedeteci una piccola parentesi storica.
La macchina da tavolo di SEGA nasce come risposta al già popolare NES: forte della sua superiorità in ambito arcade, SEGA decide di investire riadattando quello che al tempo era il suo hardware più famoso, il SG-1000 che, migliorato qua e là, fu messo in vendita con il nome di SG-1000 II (conosciuto poi come Sega Mark III). Questo è valido soltanto in Giappone, dal momento che nel resto del mondo (Brasile compreso) prese il nome di SEGA Master System.
Passato storico a parte, la console distribuita nei mercati mondiali vantava un aspetto particolarmente pigoloso, una sorta di monolito che sembrava uscito direttamente da 2001: Odissea nello Spazio. La console, di colore nero, offriva uno slot per il caricamento delle cartucce nella parte alta, una sottile linea rossa correva in orizzontale lungo tutta la parte superiore della plastica quasi come fosse la Supercar delle console, una speciale KITT che aspetta solo che il suo Michael premesse quel grosso tasto vicino all’angolo frontale sinistro per l’accensione, dopo aver inserito uno o due pad nelle apposite porte situate al centro della console.
Appena sotto allo slot per le cartucce, un riquadro con uno strano grafico sintetizzava come utilizzare la console con tanto di led di accensione verde. Infine, svettavano due tasti, RESET e PAUSE che facevano esattamente quello che promettevano.
Non dimentichiamo (come fece maldestramente la stessa SEGA al momento di lanciare il modello Master System II) lo slot per l’inserimento delle SEGA Card, l’economica possibilità offerta al giocatore che voleva spendere meno ma utilizzare comunque la sua console per fare qualcosa di diverso da Hang-On e dal gioco segreto della lumaca nel labirinto inclusi nella memoria della piattaforma.
Oltre alle classiche cartucce, infatti, era possibile acquistare delle speciali card dalle dimensioni simili a quelle di una carta di credito, il cui prezzo era sensibilmente ridotto visto il minor costo di produzione rispetto alle cartucce. Tuttavia, le limitate capacità di memoria e il sempre crescente aumento delle dimensioni dei giochi portarono SEGA ad abbandonare ben presto questo formato, costringendo il colosso giapponese a lanciare su cartuccia alcuni titoli proposti su SEGA Card per assicurarne la compatibilità con le nuove revisioni hardware.
Master System iniziò a mostrare i muscoli presentando conversioni dei titoli arcade di SEGA. Non che le sue capacità permettessero di avere delle conversioni Arcade Perfect, ma la piccola macchina si applicava al massimo delle proprie possibilità regalando molte emozioni a chi aveva deciso di fare sua la console nera e collegarla al televisore di casa.
Conversioni a parte, arrivarono anche molti titoli degni di essere giocati e diventati poi classici o trampolini di lancio per futuri franchise di successo. Quando il suo arco vitale andò a sovrapporsi a quello del fratello più fortunato, lo storico Mega Drive, la piccola console di SEGA riuscì anche ad avere la sua conversione dei titoli di punta del 16-bit, Sonic su tutti, mostrando al mondo come le sue possibilità potessero andare oltre le aspettative. Come accennato poc’anzi, SEGA lancio una revisione della console nota con il nome di Master System II, dalle dimensioni ridotte e un aspetto decisamente meno spigoloso del precedente. Ovviamente tutto questo non vale per il Brasile, dove nella speranza di cavalcare l’incredibile successo uscirono altre due, tre, anzi quattro versioni della stessa console: Master System Compact, Master System Super Compact, Master System III e infine (almeno per ora) Master System Evolution (quest’ultimo disponibile anche in una frizzante colorazione blu). A oggi siamo ancora in attesa di ulteriori sviluppi dal Sud America, dove ci aspettiamo l’uscita di un Master System Mini, tanto per seguire le mode e i trend attuali.
Tornando al libro di Bitmap Books, il sesto della collana, si tratta di un volume realizzato su licenza ufficiale di SEGA e il primo libro a parlare esclusivamente di Master System in ogni suo singolo aspetto, dal design della console alle cover a quadretti, fino ad arrivare immancabilmente ai giochi. Cresce il numero degli interventi e delle interviste (e la loro qualità): vi basti pensare che la prefazione è affidata a un certo Mark Cerny, che proprio su Master System si è fatto le unghie prima di mettere le mani sulla console con il brand più conosciuto al mondo (tranne in Brasile, lì regna ancora Master System!), PlayStation.
SEGA Master System: a visual compendium è l’ennesimo centro di Bitmap Books, un volume che eguaglia e sorpassa gli standard imposti in precedenza e tenta di dar vita a un’esperienza interattiva fuori dal comune. In allegato trovate anche un paio di occhiali anaglifici (come potete vedere dalle foto) che altro non sono che quelli che, attraverso l’accoppiata di lenti rosse e ciano, permettono di assistere a un effetto simile a quanto creato da Master System nel caso foste i fortunati possessori dei 3-D Glasses, periferica che voleva farci toccare un futuro fatto di immagini che uscivano dallo schermo.
Le pagine del libro “speciali” che si riveleranno indossando gli occhiali sono segnalate da un’icona nella parte alta (la trovate tra le foto insieme a quella di Out Run 3-D) ma basta comunque uno sguardo per comprenderlo. Dunque, non sognatevi di incolpare stampe fuori registro e indossate gli occhiali per immergervi nella realtà virtuale degli anni ’80!