Metal Gear Solid V: The Phantom Pain

Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain

I videogiochi, così come qualsiasi altra forma d’arte, si suddividono essenzialmente in due categorie: quelli che ti colpiscono di primo impatto, ma di cui poi conservi solo un vago ricordo e quelli che invece ti segnano profondamente restando ben impressi nella tua mente a prescindere dall’inesorabile scorrere del tempo. Solitamente sono necessarie almeno un paio d’ore per capire a quale categoria appartengano gran parte dei prodotti su cui ci ritroviamo a mettere le mani ogni anno, ma quando si parla di Metal Gear, beh… una manciata di minuti sono solitamente più che sufficienti per rendersi conto di avere per le mani qualcosa di unico. In questo senso Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain avrà rappresentato un’eccezione o la genialità di Kojima avrà garantito la nascita di una nuova leggenda videoludica?

UNA VERA LIBERAZIONE

A essere onesto non posso negare che la guerra tra Kojima e Konami nei mesi che hanno preceduto il lancio di Metal Gear Solid 5 mi abbia causato qualche leggera preoccupazione. Il rischio che un titolo così celebre e atteso potesse in qualche modo finire col diventare una vittima dei suoi stessi creatori, per ragioni che esulano da questioni prettamente videoludiche, mi sembrava davvero dietro l’angolo, e la preoccupazione non ha fatto che crescere progressivamente man mano che il gioco si avvicinava alla sua release. E diciamocelo, probabilmente molti di voi hanno vissuto il mio stesso “incubo”.

Quando poi il gioco è finalmente arrivato nelle mie mani, i timori della vigilia sono però scomparsi come d’incanto non appena l’avventura di Big Boss ha avuto inizio. Un inizio palpitante, prorompente e angosciante, capace di emozionare anche il videogiocatore più freddo e compassato grazie a una direzione artistica dal taglio brutalmente cinematografico, che ha posto le basi per un’avventura destinata a rimanere negli annali… nonostante evidenti alti e bassi. Sì perché per quanto sia doloroso ammetterlo, i contrasti tra Konami e Kojima di cui parlavamo in apertura si sono purtroppo riflessi sull’esperienza di gioco in maniera più significativa di quanto fosse lecito attendersi, pur non pregiudicandone irrimediabilmente l’indiscutibile valore. Ma andiamo con ordine…

DOLORE FANTASMA

Ambientato dopo gli eventi narrati in Ground Zeroes, Metal Gear Solid 5 ci mette nei panni di un Big Boss assetato di vendetta, impegnato nella difficile ricostruzione del suo personalissimo esercito dopo il drammatico attentato subito da Cipher nove anni prima. Una premessa scontata per chiunque abbia, appunto, vestito i panni di questo storico personaggio in Ground Zeroes, che si sviluppa tuttavia in maniera tutt’altro che prevedibile nel corso delle oltre 20 ore necessarie per portare a termine l’avventura nella sua interezza.

Come di consueto limiterò al minimo qualsiasi forma di spoiler narrativo in maniera tale da permettervi di apprezzare personalmente ogni più piccola sfaccettatura di una trama unica nel suo genere, ma una cosa ci tengo a sottolinearla: in questo titolo nulla è stato lasciato al caso e nonostante la quantità dei filmati sia notevolmente inferiore alle aspettative (e ai precedenti capitoli del brand) e gran parte della narrazione sia stata affidata a dei nastri reperibili nel corso dell’avventura, ci saranno momenti che vi faranno riflettere, altri che vi emozioneranno, e altri ancora che potrebbero addirittura spingervi al limite della commozione. Insomma, arte videoludica allo stato più puro e cristallino.

Complice un cast di personaggi studiato nei minimi particolari, una sceneggiatura solida e convincente – seppur incompleta, come avremo modo di constatare tra pochissimo – e alcune scelte stilistiche a dir poco geniali, ogni singolo momento dell’avventura trasuda emozioni lungo tutto il suo corso, assicurando un grado di coinvolgimento davvero insperato. Il problema, come accennato poc’anzi, è tuttavia proprio l’incompletezza narrativa. Una volta portate a termine le missioni primarie molte saranno infatti le domande ancora senza risposta e sebbene alcune di esse possano trovare risposta nei primissimi capitoli della saga per MSX, è un peccato che il titolo non sia stato portato a compimento così come il suo creatore avrebbe desiderato.

Non è infatti un mistero per nessuno che Hideo Kojima non abbia avuto l’opportunità di completare la sua opera, ma in pochi avrebbero potuto prevedere che i suoi conflitti con Konami avrebbero dato vita a un prodotto in grado di incarnare con brutale chiarezza il suo stesso titolo, “Phantom Pain”. Sì perché completando le vicende proposte ciò che proverete sarà proprio un “dolore fantasma”, legato a un profondo senso di mancanza che non potrà non accendere in voi la speranza che, prima o poi, possa arrivare un DLC in grado di completare in maniera davvero convincente e definitiva una delle esperienza videoludiche più ispirate degli ultimi 20 anni. Insomma, mai titolo fu più profetico.

Certo, la presenza di oltre 100 missioni secondarie e di una lunga serie di obiettivi primari tende a limitare l’amarezza che questo aspetto dell’esperienza potrebbe suscitare, ma in questo senso il fatto che buona parte delle missioni che compongono la seconda porzione dell’avventura siano state inequivocabilmente riciclate dalla prima – seppur con qualche variazione come ad esempio un aumento della difficoltà – tende a far risaltare la chiara intenzione di Konami di estendere artificialmente la longevità dell’esperienza, cercando al contempo di mascherare gli evidenti tagli che l’hanno afflitto sotto il profilo contenutistico. E anche in questo caso il “Phantom Pain” non può che farsi sentire parecchio…

A sopperire a tali mancanze vi è però, come detto, una direzione artistica di assoluto livello a cui si aggiunge anche una sceneggiatura davvero degna di un blockbuster hollywoodiano. Tanti sono inoltre i richiami al passato della serie – aspetto che potrebbe complicare non poco la piena comprensione dell’esperienza da parte di eventuali neofiti – e tanti sono i colpi di scena proposti nel corso dell’intera avventura (alcuni dei quali regalano addirittura una nuova, inaspettata prospettiva su alcune figure storiche della saga), e ciò implica ovviamente che l’esperienza, per quanto a tratti “mutilata”, risulti davvero unica nel suo genere.

STEALTH 2.0

In termini di puro concept The Phantom Pain propone una vera e propria rivoluzione rispetto ai suoi predecessori, senza tuttavia stravolgere in alcun modo l’essenza del suo brand di appartenenza – e ripartendo, questo bisogna sottolinearlo, da un gameplay quasi del tutto identico a quello di Ground Zeroes. Nel tentativo di far evolvere il concetto stesso di stealth, il team di sviluppo ha infatti optato per una realtà di gioco tendenzialmente free-roaming (seppur in ambientazioni piuttosto circoscritte) caratterizzata dalla massima libertà d’azione e soprattutto di interpretazione. Niente ambientazioni lineari dunque, né tantomeno filmati in quantità industriali che possano scandire l’evoluzione dell’avventura, ma solo tanta esplorazione (in ambientazioni peraltro non sempre irresistibili), con tutti i pro e i contro che ovviamente ne derivano.

Gran parte delle missioni, siano esse primarie o secondarie, possono essere infatti approcciate nella maniera ritenuta più opportuna – anche in serie, vista la possibilità di attivarne una semplicemente entrando nella sua specifica zona di riferimento sulla mappa – ma in gran parte delle occasioni è davvero difficile non provare una certa desolazione addentrandosi scenari che, per quanto vasti, non risultano mai davvero “vivi e pulsanti”. Al di là di questa doverosa precisazione è comunque innegabile che il titolo vanti una notevole profondità strategica, elemento peraltro esaltato dalla presenza di diversi “compagni di viaggio”, ognuno dei quali può supportare Snake in svariati modi. Anche in questo caso non vi fornirò anticipazioni di sorta, ma sappiate che ogni “spalla” avrà un impatto tutt’altro che marginale sullo svolgimento delle missioni e sulle strategie che potrete sfruttare per portarle a termine.

Ciò che stupisce è poi la grande varietà di equipaggiamenti a nostra disposizione. Complice la presenza di una Mother Base mai così ricca di sfaccettature, in cui è possibile ordinare la progettazione di nuove tecnologie con regolarità, Big Boss potrà infatti contare su una vasta gamma di armi, equipaggiamenti e dispositivi differenti sin dalle primissime ore, e il loro numero non farà che salire esponenzialmente con il passare delle ore, accrescendo così le variabili tattiche, già spiccatissime, di qualsiasi operazione. Un aspetto che molti potrebbero definire marginale ma che, considerando la difficoltà di molte situazioni – specie verso la fine dell’avventura – non potrà essere lasciato assolutamente al caso.

E restando in tema di Mother Base, anche in questo caso non si può negare come tale feature presenti evidenti alti e bassi. Se da un lato è infatti innegabile che la possibilità di reclutare nuovi soldati – ognuno dei quali avrà specifiche competenze – risulti estremamente stimolante e contribuisca a fornire nuovi stimoli durante le normali fasi di esplorazione, dall’altro non si può fare a meno di notare la scarsa atmosfera che contraddistingue la propria “base operativa”. Non essendoci alcuna forma di reale interazione con i propri uomini, muoversi per la Mother Base non regala alcuna vera emozione e se non fosse per le sporadiche sequenze scriptate che si verificano al suo interno in particolari occasioni, gli stimoli per tornarvi con regolarità mancherebbero quasi del tutto. In questo senso si sarebbe decisamente potuto fare qualcosa in più.

PRIMA DEL VOTO…

In queste settimane si è dibattuto molto su quale fosse il voto più adatto per quella che, smentite di rito a parte, è essenzialmente un’opera straordinaria ma incompleta, e prima di introdurvi alla mia personalissima conclusione, ci terrei a fare alcune doverose precisazioni su i motivi che mi hanno spinto ad assegnare il voto che leggerete fra poche righe. La stampa internazionale, nei confronti del prodotto, è essenzialmente divisa in due schieramenti: alcuni sono arrivati a valutare il gioco con un tanto chiacchierato “perfect score” spinti da un entusiasmo eccessivo o, chissà, qualche pressione esterna, mentre altri, forse nel tentativo di conquistare un po’ di visibilità in più, lo hanno criticato pesantemente, concentrandosi solo sulle sue – ripeto – oggettive mancanze contenutistiche. Secondo chi vi scrive la verità sta proprio nel mezzo. Metal Gear Solid V non è, purtroppo, un gioco perfetto né tantomeno completo, motivo per cui un “perfect score” non sarebbe solo fuori luogo, ma anche assolutamente ingiustificato e in parte “sospetto”. Allo stesso tempo però, l’ultima fatica di Hideo Kojima non può essere definita neanche un fallimento perché, come sottolineato più volte all’interno dell’articolo che avete appena letto, possiede un valore artistico ed emozionale che rasenta la perfezione. E’ vero, non ci sono ore di filmati e la narrazione, affidata a dei “freddi” nastri, può senz’altro apparire scarna e di scarso impatto – almeno a un occhio prevenuto – ma ciò non toglie che rappresenti comunque una degna conclusione per una delle poche saghe videoludiche che meritano di essere definite “leggendarie”.

GIUDIZIO

Straordinariamente intenso e coinvolgente a fronte di una sceneggiatura da Oscar e di un concept di base solidissimo, Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain è un gioco che, paradossalmente, finisce con l’essere fin troppo fedele al suo stesso nome.