Il primo Outlast aveva stupito per la sua capacità di incutere terrore senza appoggiarsi ad arma alcuna. Nulla che Amnesia non avesse già esplorato, ma Outlast l’aveva fatto con competenza, rivelando una conoscenza e una padronanza notevoli nei confronti del survival da parte degli sviluppatori di Red Barrels. Il contesto del manicomio, in quel caso, era stato sfruttato in chiave horror. Non c’è dubbio che i manicomi rappresentino un grande bacino da cui attingere per narrare storie dell’orrore, sebbene racconti alternativi come quello di The Town of Light dimostrino che l’orrore dei manicomi non coincide necessariamente con mostri e fantasmi.
Outlast funzionava perché costruito intorno sia a un contesto macabro, sia a una meccanica angosciante che richiedeva al giocatore non di affrontare i nemici, ma di fuggire e nascondersi. Come non bastasse, a squarciare l’oscurità dei corridoi e degli anfratti del manicomio solo la visione notturna della propria videocamera. L’urgenza di recuperare batterie per mantenere in vita l’unica forma di “luce” diventava elemento ulteriore di stress. Per questo secondo capitolo gli sviluppatori hanno fatto tesoro di quanto imparato in precedenza, riproponendo una formula analoga ma cambiando setting e orizzonte narrativo.
WELCOME TO ARIZONA
Outlast II conduce il giocatore in Arizona, in un contesto che potrebbe ricordare il celebre Grano rosso sangue di Kiersch – tratto da Stephen King – tematiche religiose comprese (ma a dire il vero la religione e la fede erano temi cardine anche del primo episodio). La meccanica della videocamera ritorna come in origine, ancora una volta giustificata dalla narrazione (il giocatore è un cameraman in missione con la moglie, giornalista). In Outlast II si può però anche attivare il microfono, per captare più chiaramente suoni o dialoghi poco lontani e individuarne la provenienza. L’effetto è davvero angosciante: con quei sussurri che, anziché svelare l’orrore, lo suggeriscono. Non si tratta di un’aggiunta fine a sé stessa.
Il contesto meno claustrofobico della cittadina di Temple Gate concede spazi più ampi al giocatore, che si trova costretto a capire bene qual è il pattern dei nemici per evitarli. Si badi bene: Outlast II non è un open world, al contrario. Per quanto possa camuffare la sua natura lineare, è un horror “su binari”, che guida il giocatore in maniera persino troppo scriptata. Il primo episodio offriva alcuni margini di backtracking; qui gli sviluppatori hanno puntato invece su una folle corsa verso l’ignoto. Tant’è che la dinamica del nascondino, valorizzata nel primo capitolo dalla stessa struttura del manicomio, perde un po’ di mordente, risultando a tratti quasi accessoria. In altre parole, di fronte al pericolo conviene spesso fuggire, pur senza meta apparente, nella speranza di trovare il pertugio giusto per farla franca. È un peccato, anche perché Temple Gate e i suoi dintorni offrono numerose opportunità per nascondersi. L’ago della bilancia pende insomma più in favore della fuga che del nascondino, laddove il primo episodio garantiva un maggior equilibrio e, se vogliamo, una maggior strategia.
L’ORRORE NEL BUIO
Outlast II rimane comunque un viaggio nell’orrore graziato da un’ambientazione affascinante e perturbante e da una qualità della scrittura decisamente sopra la media. Nonostante l’innata linearità, o forse proprio grazie all’innata linearità, offre un racconto intrigante e immersivo, dai toni estremamente crudi. Il titolo di Red Barrels opta per un linguaggio e un immaginario per nulla edulcorati, non risparmia visioni sgradevoli al giocatore. La narrazione riesce a mescolare piani temporali e “onirici” differenti, col racconto principale che si alterna a flashback legati al passato del protagonista, mixati perfettamente col contesto di gioco.
La tematica cardine – il rapporto tra fede, suggestione, pazzia e malattia – intriga e spaventa, perché a essere svelata è la natura ambigua e fragile dell’essere umano e delle sue perversioni. Le piccole comunità, il terrore dell’ignoto, il rapporto tra uomo e Dio. Si respira aria di Lovecraft, oltre che di King. C’è un po’ di Blair Witch Project in questa poetica da found footage, qui più marcata rispetto al primo capitolo. Il giocatore è infatti chiamato a registrare i momenti salienti dell’esplorazione, le scoperte più raccapriccianti, per costruire una sorta di macabro diario di viaggio.
Outlast II non offre nulla di eccessivamente originale sul fronte dei contenuti, soprattutto se messo in relazione a tanta cinematografia horror. Tuttavia, non è una questione di cosa ma di come. Gli sviluppatori sono riusciti a restituire un contesto e un’atmosfera incredibili, a tradurre in chiave videoludica alcuni dei migliori filoni dell’horror letterario e cinematografico. Non sappiamo se questo secondo capitolo sia realmente migliore del primo, ma poco importa: sono due opere ugualmente incisive.